La Liguria è una virgola di terra collocata in un angolo remoto del Mediterraneo. Ma è anche un punto messo per separare due periodi politici. Il primo, strettamente legato al paradigma della narrazione progressista che, mai come in questo caso, fa rima con giustizialista e poi il secondo, assai più aderente alla realtà ontologica delle volontà elettorali. In un canovaccio dove la conquista della Regione veniva data ormai per acquisita, in virtù di sondaggi trionfalistici, sembrava che le sinistre si fossero concentrate soprattutto sui loro drammi interiori oltre che sulle loro conflittualità intestine. Breve carrellata di onanismo politico: il campo largo che diviene meno esteso per scelta di un Giuseppe Conte incapace di distinguere lo sgarbo personale dall’opportunità politica; il riformismo liberal-democratico trasfigurato nelle fattezze di un fiorentino in cerca d’autore ma orfano, per l’appunto, di simpatie grilline; un Movimento 5 stelle dedito alla pratica del parricidio nel cuore della campagna elettorale e ultimo, ma non per importanza, la scelta di un candidato famoso a livello nazionale, apicale nell’organigramma partitico, ma assai poco connesso con il territorio locale, forse solo con la chimerica quinta provincia, ma tant’è.
Ergo, il centrosinistra ha dimostrato, per l’ennesima volta, una cronica incapacità di leggere la realtà per quella che è, preferendo illudersi di vivere una dimensione alternativa, frutto di una visione ideologica tipica di chi soffre del complesso dei migliori. D’altronde la vicenda di Giovanni Toti (al quale va riconosciuta una fetta importante di questa vittoria) dimostra che certe intemerate giudiziarie dovrebbero essere ponderate con maggiore cautela sia da parte dei giudici, sia da parte di coloro che ancora non comprendono (o fingono di non capire?) la differenza che intercorre tra la richiesta di rinvio a processo e una condanna definitiva, il solco che a volte separa la morale dal diritto e il sacro principio per cui la perdita della libertà è “l’extrema ratio” che deve essere comminata non prima ma dopo l’ultimo grado di giudizio. E soprattutto, dato il caso specifico, non aver minimamente compreso che il patteggiamento è servito si a Toti per non impelagarsi in un dibattimento processuale che si annunciava estenuante per un capo d’imputazione peraltro difficile da confutare ma, ancor più, è stato un’ancora di salvezza per quei magistrati inquirenti che dovevano giustificare l’intera impalcatura accusatoria nei confronti dell’ex presidente ligure.
E mentre andava in scena questo psicodramma al pesto, il centrodestra è riuscito a trovare nel volgere di pochi mesi un nuovo assetto, facilitato da un candidato oggettivamente forte (e qui gran parte del merito va all'intuito vincente della premier Meloni) ma pure da una coalizione che ha condito il proprio peso elettorale con una densità politica sedimentatasi in circa 8 anni di buon Governo. Una capacità amministrativa denigrata da un racconto preconfezionato ed artefatto, utile per compiacere la costruzione concettuale della propria fazione. Ma si sa: la differenza tra una coalizione vincente e una perdente non è data tanto dalla dilatazione del perimetro delle alleanze, quanto dalla capacità di rendere gli accordi tra alleati funzionali per un dato progetto comune che nasce da una visione programmatica condivisa la quale, a sua volta, deriva da un profilo identitario assai simile – sebbene con le fisiologiche sfumature e sensibilità politico-culturali del caso – tra i singoli componenti dell’unione.
E così, praticando il pragmatismo e il buon senso, strumenti essenziali oggigiorno per evitare l’affievolirsi di una prospettiva liberale, Marco Bucci pare aver seguito il consiglio di un celebre ligure che amava mettere in musica nobiltà e miserie della gente comune. Ed è così che l’ormai ex sindaco di Genova, volendo omaggiare Fabrizio De Andrè, “chiama i ricordi col loro nome, volta la carta e finisce in gloria”.
Aggiornato il 29 ottobre 2024 alle ore 11:20