Viva Marx, Viva Lenin, Viva Mao Tse-tung

All’inizio degli anni Settanta ci sembrava normale partecipare a riunioni in una sala fumosa dove campeggiavano, dietro un tavolo con delle sedie, due gigantografie, rispettivamente di Iosif Stalin e di Mao Tse-tung. La percentuale degli studenti del nostro liceo che erano regolarmente iscritti a Stella rossa non era alta, ma molti, in veste di amici o simpatizzanti, partecipavamo comunque alle riunioni della Lega rivoluzionaria della scuola, che di Stella rossa era l’emanazione in ambito studentesco. Allora ci sembrava normale considerare Stalin un bravo rivoluzionario, che aveva dedicato la sua vita alla classe operaia, oltre ad aver salvato il mondo dal nazismo; così come ci sembrava normale essere marxisti-leninisti e maiosti. Di Mao conoscevamo in genere solo qualche pagina del suo libretto rosso, molto di moda in quegli anni, e avevamo un’idea vaga e idealizzata di come funzionasse la società cinese. Su Stalin qualcuno aveva letto, anche sul manuale di storia, che sì, aveva commesso qualche esagerazione, ma questo non intaccava il giudizio complessivo sulla bontà dei valori di riferimento a cui aveva dedicato la sua vita. Il fatto che questi due protagonisti della storia del Novecento potessero aver provocato la morte di decine di milioni di loro concittadini in tempo di pace ci era allora ignoto. A scuola nessuno vi aveva fatto mai cenno e i libri di testo tendevano a glissare sulle dimensioni dei loro crimini nonostante che Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn iniziasse a circolare in Italia proprio in quel periodo.

Dei crimini di Stalin scoprimmo la portata solo molti anni dopo, quando, dopo il crollo dell’Urss, furono aperti i suoi archivi e per molti storici, anche italiani, fu possibile accedervi. Allora, anche quei pochi che ne sapevano qualcosa non ne parlavano volentieri, almeno a scuola, dove le assemblee erano monopolizzate dai cosiddetti gruppuscoli extraparlamentari. I più famosi, almeno dalle nostre parti, erano Lotta continua, Avanguardia operaia, Il Manifesto. Ma nel nostro liceo il gruppo più forte e organizzato, quello che potremmo ritenere egemone nel movimento studentesco, era Stella rossa, dichiaratamente stalinista. All’inizio degli anni Settanta cercare di opporsi, da sinistra, al predominio di questi gruppuscoli era impossibile, anche per il Pci. Un giorno, al termine di una delle tante assemblee, una mia compagna di classe, poi divenuta una brava scrittrice e slavista, mi disse a bassa voce che avremmo dovuto fare qualcosa per cercare di opporci alla loro egemonia. Vigliaccamente, un po’ vergognandomi, declinai l’offerta di aiutarla a organizzare una qualche forma di opposizione a tutto questo: sapevo che sarebbe alla fine stato controproducente e che avrei rischiato anch’io di essere bollato come fascista. Allora bastava davvero molto poco per cadere nel vortice di quest’infamia, dove era particolarmente facile scivolare se si era già subita la cocente offesa di essere considerati dei socialdemocratici, e quindi dei socialfascisti.

Tutto questo sembrava normale anche a quelli che avevano delle riserve su certe pieghe che stava prendendo il movimento studentesco, perché neanche loro erano pronti a rinunciare a quella sensazione di appartenenza che il marciare insieme e scandire slogan dava a ciascuno di noi. Era bello sentirsi uniti, lottare insieme ai propri compagni, di scuola e di fede politica, per un mondo migliore. Era bello sognare una società più giusta, sentirsi affratellati nella lotta. Chi aveva dei dubbi circa il fatto che quelli fossero i metodi e le strategie più idonee per conseguire tali obiettivi cercava per lo più di gestirli con qualche riservatezza, ma partecipava comunque al movimento, per senso di appartenenza a una generazione, per la condivisione di comuni ideali e per solidarietà.

Il clima che si respirava allora nella scuola italiana era questo, anche se forse in provincia, rispetto alle grandi città, il contrasto con la tranquillità usuale della vita cittadina era più stridente. La maggior parte di noi era in assoluta buona fede: eravamo davvero convinti che quella fosse la strada, che il capitalismo fosse una cosa cattiva, non meno del fascismo o addirittura del nazismo, che Stalin fosse in fondo un eroe del proletariato, e se non Stalin che sicuramente lo fossero stati Karl Marx, Lenin, Mao Tse-tung, i cui nomi erano infatti scanditi in uno degli slogan più gettonati.

Un episodio può risultare forse particolarmente indicativo per comprendere il clima di quegli anni. Un giorno venne organizzata dalla scuola una gita a Roma per vedere una mostra organizzata da Stella rossa con la finalità di finanziare il partito. Accompagnati alla nostra insegnante di letteratura italiana, peraltro bravissima, andammo a Roma dalla mattina alla sera, nonostante i quasi 400 chilometri di distanza. Una volta giunti a destinazione ci recammo subito a vedere la mostra, alcuni di noi comprarono dei quadri e tornammo indietro. Non andammo nemmeno a dare un’occhiata alla città, ai suoi monumenti più importanti. Siccome ci avevano esortato a finanziare il partito acquistando qualche opera avevo persino trovato il modo di convincere preventivamente i miei genitori a darmi i soldi per acquistare un quadro: scelsi poi un disegno di Piero Tredici, di cui prima ignoravo l’esistenza, disegno poi smarrito in uno dei numerosi traslochi.

Insomma: una scuola organizzò una gita a Roma per finanziare un’organizzazione stalinista. Oggi una simile iniziativa susciterebbe, forse, qualche forma d’indignazione e di protesta, ma allora ci sembrava normale. Quel “forse” allude al fatto che le cose non sono poi, forse, molto cambiate. I paradigmi teorici che erano attivi allora non sono mai stati messi seriamente in discussione e quella cultura liberaldemocratica che durante la Prima Repubblica aveva saputo fornire una valida alternativa a quei paradigmi è ormai diventata innocua e marginale. Da quando i liberali in Italia hanno assunto come premessa della loro azione politica (alla faccia di Benedetto Croce, Luigi Einaudi e di molti altri liberali veri), che con la cultura non si mangia, la cultura, e con essa la scuola e l’università, sono state sempre più nella disponibilità dell’egemonia culturale di certa sinistra ben poco democratica, anche perché tra gli intellettuali sono sempre rimasti attivi allo stato dormiente anche i principi che ispiravano quella extraparlamentare di allora.

Sono nel frattempo trascorsi decenni in cui i giovani delle scuole superiori sono stati educati, almeno formalmente, ai valori dell’antifascismo: sono stati portati dalle scuole a visitare Auschwitz o Mauthausen, hanno partecipato a celebrazioni e commemorazioni, hanno festeggiato la liberazione ogni anno e fatto professione di condanna di ogni forma di razzismo. Il risultato è che oggi le strade e le piazze sono piene di giovani che sventolando bandiere palestinesi supportano di fatto un’organizzazione politica, da tempo padrona assoluta della Striscia di Gaza, che da quando esiste ha come suo primo obiettivo la soppressione dello Stato d’Israele e che il 7 ottobre 2023 ha compiuto una strage e rapito ostaggi in un perfetto stile nazista.  A buona parte dell’opinione pubblica tutto questo sembra non solo normale, ma anche giusto.

Questa parte dell’opinione pubblica è costituita da persone che non hanno in realtà mai smesso di credere negli ideali dei primi anni Settanta, e che considerano, sebbene sotto traccia, ancora validi i paradigmi teorici che ispiravano quella visione del mondo, che riusciva ad abbinare ideali alti con il peggior modo possibile per cercare di realizzarli. Partendo da quei presupposti, e cioè dalla convinzione che la società capitalistica sia essenzialmente ingiusta e che debba per questo essere abbattuta, non si poteva, e non si può, che arrivare a simili conseguenze. Così le critiche odierne alla società occidentale, l’ideologia Woke, la Cancel culture e l’islam-comunismo collaborano più o meno esplicitamente allo stesso progetto: distruggere questo tipo di società, rivelandosi così epigoni, nelle nostre università e nelle scuole, del trionfo degli stessi modelli culturali che consentivano di acclamare alcuni grandi dittatori del Novecento nei cortei di allora.

Del resto, chi vi partecipa, oggi come allora, si garantisce una maggiore integrazione sociale, un più nutrito numero di amici e di amiche, anche virtuali, di quello che gli sarebbe altrimenti possibile avere e, dulcis in fundo, la probabile partecipazione a qualche piccola impresa simil-eroica, come prendere a sassate un celerino o rompere un cartello in testa a un carabiniere immaginando d’essere un novello Ernesto Che Guevara. Chi lo fa, oggi come allora, non ha mai percepito l’errore e la disinformazione che hanno consentito il successo dei principi che circolavano nel movimento studentesco durante gli anni Settanta, non a caso quelli che poi portarono al combinarsi delle tragiche vicende del brigatismo rosso e dello stragismo nero, due fenomeni che si alimentarono a lungo a vicenda.

Come allora, anche oggi l’idea che le colpe fondamentali dell’infelicità umana ricadano sulle malvagie società capitalistiche, che poi erano la stesse che nazismo e fascismo denominavano plutocrazie occidentali, continua a fare proseliti, e con essa ha ripreso a mietere successo anche un’altra idea, già prediletta dai nazisti, ma non solo: quella che gli ebrei siano in realtà coloro che di questa società capitalistica, di queste plutocrazie occidentali, tengono le fila, di cui architettano lo sviluppo nel loro interesse e in quello dei borghesi loro complici. Si tratta, naturalmente di un’idea semplicemente delirante, di cui è però impossibile spiegare la natura a chi tale delirio condivide. Sotto traccia, quest’idea ha continuato a circolare senza sosta insieme ai pregiudizi sulla società capitalistica, che poi null’altro è in realtà che la società liberaldemocratica, e questi pregiudizi hanno continuato a propagarsi imperterriti nonostante un breve periodo di appannamento negli anni immediatamente successivi al crollo dell’Unione Sovietica.

Dopo la reazione israeliana al 7/10, questa visione della società e della storia è tornata improvvisamente di moda e sta riportando in auge l’antisemitismo in tutte le democratiche società occidentali, con grande soddisfazione delle dittature più o meno criminali che lo alimentano e di quell’Intellighenzia marxista-leninista che, dopo essere rimasta per qualche anno un po’ acquattata, oggi è tornata scopertamente a lavorare per la soppressione delle società liberaldemocratiche, a iniziare ovviamente da quella israeliana. In questo, naturalmente, ha trovato un prezioso alleato in quelle componenti nazifasciste ancora ben presenti nella nostra società, che non vedevano l’ora di poter essere sdoganate dai loro tradizionali e apparenti avversari per sferrare, insieme a loro e agli islamisti, l’attacco definitivo alle plutocrazie capitalistiche occidentali.

In questo desolante scenario, purtroppo non si può non prendere atto che i pochi liberaldemocratici resilienti, oltre che di fatto accerchiati, sono anche piuttosto litigiosi, mentre in un momento così delicato della storia dovrebbero fare del loro meglio per essere uniti e combattivi, onde evitare di trovarsi raccolti in una stanza grigia sotto l’effigie di qualche dittatore criminale, magari uno con il sorriso algido di Vladimir Putin, oppure uno con la Kefiah in testa e un bambino in braccio, mentre sorride anche lui per la vittoria appena conquistata, mostrando orgoglioso il suo kalashnikov sopra il cadavere di una ragazza appena massacrata.

Aggiornato il 23 ottobre 2024 alle ore 10:08