Questo è un appello perché s’uniscano le forze per varare l’amnistia generale. Le cui ragioni forse verranno comprese da pochissimi tra coloro che vivono nei meandri del potere.
L’amnistia è come l’acqua per gli assetati, è un miraggio che accompagna i sogni ad occhi aperti di tanti dannati. L’italiano è oggi allo stremo delle proprie forze, per motivi economici, bancari, fiscali e giudiziari. I lavorativamente inattivi hanno superato i 34 milioni (fonte Istat), e più del venti per cento tra disoccupati e inattivi ha grane più o meno grosse con fisco e giustizia. Siamo alle porte del Giubileo, e mai si vorrebbe che passasse alle cronache solo come un evento mondano, fatto di feste romane in cui la bella gente invita a cena cardinali e vescovi. Come è usanza tra i benestanti, ovvero ostentare potere e benessere ad amici e parenti dimostrando di avere monsignori tra i propri commensali. Oppure quegli eventi pubblici in cui imprenditori e politici si fingono magnanimi col popolo, casomai intortano ampollosi discorsi sulla “povertà sostenibile” parlando ad un microfono, mentre dal polso fa capolino un bel Rolex d’oro.
L’amnistia era l’argomento che accompagnava le saltuarie passeggiate mattutine che facevo col compianto amico Arturo Diaconale: mi diceva “lascia di scrivere, facciamo un salto al Partito Radicale”. In quella passeggiata tra Via Del Corso e Largo di Torre Argentina incontravamo tutti: spesso Gabriele La Porta e qualche volta Gianfranco Funari. Fermavano Arturo chiedendo lumi sulla politica, io rincaravo la dose con “inseriamoli nel nostro dibattito sull’amnistia”.
Arturo di rimando alzava le braccia al cielo, e quasi stizzito “Figurati! Non la faranno mai... il coraggio di certi atti è terminato con la Prima Repubblica”. Ricordo che tutti i suoi interlocutori, a cominciare da Marco Taradash che ci aspettava per il caffè a Largo Arenula, erano convinti che ci volesse un’amnistia generale. Oggi nessun partito o singolo parlamentare s’azzarderebbe a parlare d’amnistia, temendo di finire nel tritacarne giustizialista, o anche solo dispiacere a quegli elettori che reputano lo Stato debba sbattere sempre più cittadini in galera. Quante volte abbiamo ascoltato nei bar o per strada commenti come “le carceri le dovrebbero ancora riempire, stipandoli nelle celle, troppi nullafacenti girano a cercare pane e quattrini”. Insomma, la ricetta vittoriana contro la povertà, quegli arresti per indigenza che nella seconda metà dell’800 cambiarono demograficamente il volto dell’Australia. Ma ottocento anni fa, forse anche per opportunismo, il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi convinceva Bonifacio VIII ad istituire il Jubileo. Da allora è usanza per il potere che, per acquisire indulgenze, e varcare almeno una volta la Porta Santa, necessiti perdonare i più deboli prima di prendere l’Eucaristia. Sovrani e governanti hanno da allora dimostrato la propria bontà perdonando, concedendo amnistie. Questo almeno fino allo scadere della Prima Repubblica. L’ultima amnistia reca firma del presidente della Repubblica Francesco Cossiga sul Decreto del Presidente della Repubblica del 12 aprile 1990, n.75: Concessione di amnistia per reati con pena reclusiva fino a 4 anni, non finanziari. E poi dello stesso Cossiga sul Decreto del Presidente della Repubblica del 20 gennaio 1992, n.23 Concessione di amnistia per reati tributari”.
Più o meno ogni quattro anni, dall’Unità d’Italia fino alla caduta della Prima Repubblica, governi e presidenza della Repubblica erano soliti assecondare la richiesta pontificia di fare amnistia per coloro che disgraziatamente erano incappati nelle maglie della legge.
Inizialmente in Italia l’amnistia era prevista con decreto regio, come atto di grazia il sovrano la poteva concedere, ma non diretta ad un singolo caso bensì generalizzata. Con la caduta della monarchia, l’amnistia ha cominciato a subire una progressiva evoluzione: con l’instaurazione della Repubblica il capo dello Stato è andato a sostituire il sovrano, firmando grazie su impulso del Parlamento.
Dal 1992, l’ultima riforma costituzionale ha attribuito questo potere direttamente al Parlamento, come espressione della volontà popolare, abbracciando un principio più democratico, con votazione a maggioranza qualificata. La disposizione vigente modifica l’amnistia in Italia, ed è prevista dall’articolo 79 della Costituzione: normata dall’articolo 151 del Codice penale, il quale recita: “L’amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione e le pene accessorie.
L’estinzione del reato per effetto dell’amnistia è limitata ai reati commessi a tutto il giorno precedente la data del decreto. L’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell'articolo 99 Codice Penale, né ai delinquenti abituali, o professionali o per tendenza, salvo che il decreto disponga diversamente. Come fissato dalla Costituzione, l’amnistia si applica ai reati commessi anteriormente alla data di presentazione del disegno di legge in Parlamento.
Va detto che, se il decreto è di “amnistia impropria” e non totale va a cessare solo l’esecuzione della condanna e le pene accessorie, ma permangono gli altri effetti penali: perciò malgrado il provvedimento di clemenza, la condanna costituisce titolo per la dichiarazione di recidiva, di abitualità, di professionalità nel reato o per escludere il beneficio della “sospensione condizionale” della pena per future condanne. Così l’amnistia impropria rimette la competenza al giudice dell’esecuzione, il quale procede (senza formalità, con procedura de plano) con ordinanza comunicata al Pm e notificata all'interessato.
L’amnistia propria è invece applicata direttamente dal giudice penale (di merito o di legittimità) che deve dichiarare l’imputato non punibile e il reato estinto per intervenuta amnistia”.
“Santità!” recitava da laico il compianto amico Arturo Diaconale presentando il suo ultimo libro sul Papa, e poi rivolgeva un appello perché ci facesse grazia di chiedere l’amnistia al presidente della Repubblica. Diaconale aveva raccolto la staffetta da Marco Pannella. Lo scrivente continua a perorare la causa dell’amnistia, e perché si ridia speranza ai tanti perseguitati dalla giustizia. Perché perdono e garantismo devono essere alla base della convivenza civile. L’Italia continua a vivere avvolta in sorta di febbre defatigante, una continua guerra civile tra sinistre e destre, con ripercussioni tra cittadini e casta giudiziaria. Perdonare ed amnistiare dovrebbe essere obiettivo basilare di chi crede in un percorso di rappacificazione nazionale.
Aggiornato il 21 ottobre 2024 alle ore 10:04