Dietro la retorica della sostenibilità si nascondono realtà economiche innegabili: l’approccio dirigista dell’Agenda verde rischia di soffocare l’innovazione e di compromettere il futuro industriale dell’Europa
Fin dal suo annuncio, il Green deal europeo è stato accolto con grande entusiasmo come la strategia per una transizione ecologica che avrebbe reso il continente il leader mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici. Tuttavia, come spesso accade con i progetti ambiziosi, l’impatto con la realtà sta rivelando una serie di ostacoli che minacciano di rallentare, se non addirittura compromettere, gli obiettivi indicati dai suoi promotori. Le resistenze provenienti soprattutto da settori chiave come l’industria automobilistica e quella agricola, unite alla crescente richiesta di flessibilità da parte degli Stati membri, stanno mettendo in discussione la fattibilità di alcune delle misure più radicali. Per il settore automobilistico, che rappresenta uno degli ambiti più colpiti dalle politiche dell’agenda verde, il piano prevede di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Tanto con una regolamentazione severa che, se venisse applicata alla lettera, potrebbe avere effetti devastanti sul comparto produttivo. A fronte di ciò, le case automobilistiche hanno iniziato a chiedere con insistenza una revisione delle normative previste, ritenendo insostenibili le multe per chi non rispetterà i limiti sulle emissioni nel 2025. Il che ha sollevato e solleva una questione centrale: la transizione verso forme che si pretendono più sostenibili di mobilità può davvero avvenire in tempi così brevi senza compromettere l’equilibrio economico di Paesi fortemente dipendenti dal settore automobilistico come ad esempio l’Italia? Il nostro Paese, infatti, si trova oggi in una posizione delicata, tant’è che il Governo, in posizione isolata rispetto alla maggioranza degli altri Stati membri, ha proposto di posticipare il bando delle auto a motore termico previsto per il 2035. Una misura ritenuta necessaria per evitare il collasso di un comparto già sotto pressione a causa delle crisi economiche e della concorrenza internazionale, in particolare dalla Cina, che domina il mercato delle batterie elettriche. Ma c’è di più: l’eccessiva rigidità delle norme europee rischia inoltre di frenare l’innovazione tecnologica, impedendo soluzioni alternative che potrebbero emergere spontaneamente dal mercato.
Un altro nodo cruciale del Green deal riguarda la deforestazione. Tra le misure previste, vi è il divieto di importazione di prodotti provenienti da terre disboscate, con l’obiettivo di frenare la distruzione delle foreste tropicali. Tuttavia, anche qui le resistenze non mancano. Molti Paesi europei, tra cui ancora l’Italia e la Germania, hanno chiesto un rinvio dell’entrata in vigore di tali normative, prevista inizialmente per il 1° gennaio 2024. Questo perché l’impatto economico delle nuove regole potrebbe essere devastante, sia per i settori produttivi europei che dipendono da materie prime provenienti da aree a rischio di deforestazione, sia per i Paesi in via di sviluppo, che vedrebbero crollare la domanda di prodotti come il cacao e il caffè. Invero, vi è da rilevare che, dietro le resistenze alla normativa sulla deforestazione, si cela in realtà una verità scomoda: non basta legiferare in nome della sostenibilità senza tenere conto delle conseguenze economiche e sociali di dette decisioni. L’errore di fondo del patto climatico sta nel tentativo di imporre dall’alto un modello economico “verde” che, pur propagandato come salvifico, ignora le complessità delle dinamiche di mercato. A tal proposito non è inutile richiamare che, come ha sottolineato l’economista Julian Simon, le risorse non si esauriscono perché diventano scarse, ma perché l’ingegno umano trova nuove soluzioni per produrle o sostituirle: “La risorsa ultima – ha scritto nel suo celebre libro The Ultimate Resource – non è fisica ma umana: la capacità di inventare e adattarsi” La vera sfida non consiste quindi nel bloccare la produzione o imporre regolamenti draconiani, ma nel creare un contesto favorevole all’innovazione e alla crescita.
A parte ciò, è opportuno considerare che le difficoltà incontrate dal Green deal riflettono, in buona sostanza, un problema più ampio, ossia la tensione tra l’ideologia e la realtà economica. La visione utopistica di un’Europa totalmente green entro pochi decenni si scontra con la natura stessa del mercato, che non può essere pianificato centralmente senza produrre effetti collaterali negativi. L’esperienza storica insegna che ogni volta che i governi hanno tentato di forzare il corso dell’economia attraverso regolamentazioni eccessive, i risultati sono stati per lo più fallimentari. Un esempio lampante di questo fallimento è rappresentato dalle politiche energetiche che, negli ultimi anni, hanno privilegiato le fonti rinnovabili senza tenere conto della necessità di una transizione graduale. Il risultato? Un aumento vertiginoso dei costi dell’energia, che ha colpito in particolare le fasce più deboli della popolazione e le imprese, con il rischio di una deindustrializzazione dell’Europa a vantaggio di Paesi meno vincolati da normative ambientali. Analogamente, il rischio concreto è che l’Agenda verde, nel modo in cui è stata progettata, soffochi la crescita economica e aumenti le disuguaglianze. Piuttosto che premiare le imprese che investono in innovazione e sostenibilità, l’approccio punitivo potrebbe allontanare gli investimenti, spingendo le industrie a trasferirsi in Paesi dove le normative sono meno restrittive.
Se l’Europa vuole davvero conciliare crescita economica e sostenibilità ambientale, è necessario un cambio di paradigma, abbandonando logiche dirigiste e pianificatrici, in favore di un approccio alternativo. Esso potrebbe essere quello di eliminare barriere protettive e gabbie burocratiche, e incentivare l’innovazione attraverso misure fiscali più leggere, che permettano alle imprese di investire in tecnologie pulite senza subire una pressione eccessiva. Inoltre, sarebbe utile adottare politiche che tengano conto delle diverse realtà economiche degli Stati membri, evitando di imporre soluzioni uniformi per tutti. Non tutti i Paesi hanno lo stesso livello di sviluppo tecnologico e industriale, e ciò che funziona in Germania o nei Paesi nordici potrebbe non essere applicabile in Italia o nell’Europa dell’Est. In conclusione, il Green deal, così come concepito e posto in essere nella sua forma attuale, rischia di essere ricordato come un’utopia fallimentare. L’Europa non deve perseguire sogni irrealistici di controllo e pianificazione centrale, ma piuttosto lasciare spazio alla libertà d’iniziativa e alla creatività del mercato. Solo il libero mercato, con la sua capacità di innovare e adattarsi, può guidare una crescita economica reale. Come ha affermato Václav Klaus, “la libertà economica è la condizione necessaria per la prosperità; il tentativo di controllare l’economia dall’alto porta solo a stagnazione e povertà”.
Aggiornato il 17 ottobre 2024 alle ore 09:51