Il laureando Alessandro Giuli, neoministro della Cultura, ha esposto alle Commissioni riunite Cultura della Camera e Istruzione del Senato le linee programmatiche della sua azione. Da quando in Parlamento fanno le registrazioni video, i resoconti stenografici sono diventati meno urgenti (sic!). Nel frattempo bisogna affidarsi ai giornali, che pochi sfogliano, oppure ai computer e cellulari degli interessati. Però leggere, e subito, il testo scritto è un’altra cosa. Perciò qui, come esempi, riprendo dei brani del discorso riportati da LaPresse e Corriere della Sera dell’8 ottobre 2024.
Il ministro Giuli “ha lasciato gli astanti attoniti con una relazione che lui stesso aveva anticipato sarebbe stata un po' teoretica”. Tra l’altro ha detto: “La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero. Chi si appresta a immaginare un orientamento per l’azione culturale e nazionale non può che muovere dal prendere le misure di un mondo entrato nella dimensione compiuta della tecnica e delle sue accelerazioni… L’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia… Si tratta di pensare: Pitagora, Dante, Francesco Petrarca, Sandro Botticelli, Giuseppe Verdi, insieme con Leonardo da Vinci e Galileo Galilei, Evangelista Torricelli, Alessandro Volta, Enrico Fermi Fermi, Antonio Meucci e Guglielmo Marconi, e al di là della declamazione dei grandi nomi della cultura umanistica e scientifica italiana, è necessario rifarsi a questa concezione circolare e integrale del pensiero e della vita che costruisce lo specifico della cultura”.
Questi scampoli bastano a dimostrare che l’eloquio di Alessandro Giuli rende oscuro non solo ciò che intendesse dire nella circostanza, ma pure quale sia il suo pensiero operativo, impossibile da afferrare nelle fumisterie della sua esposizione da ministro. Giornalista di lungo corso per giunta, affetta rimasticature dottrinali, così qui appaiono, derivantigli forse dal corso accademico in filosofia che si accinge a perfezionare con il diploma di laurea. Ha parlato volutamente in maniera incomprensibile? Se sì, il ministro dà prova di notevole talento letterario, da coltivare con cura e dedizione, perché davvero originale.
Lo stile espositivo dell’uomo politico, per di più ministro, ne costituisce il documento d’identità, sia del parlare che del fare come uomo pubblico. Cosa possiamo aspettarci da un ministro che, “deponendo” davanti alle Camere, appare affascinato dalle sue parole e impegnato in svolazzi verbali dove la cultura periclita nel vuoto di propositi indefiniti come l’iperuranio? La relazione del ministro non è stata “un po’ teoretica”, come egli si proponeva, bensì afflitta da una pretenziosa loquacità, da sfoggi intellettualistici fuori luogo e fuori scopo, considerando il posto e il fine.
Ciò nondimeno, il peccato capitale, che emerge dal discorso del ministro ai parlamentari, consiste nell’evidente compiacimento per l’espressione involuta, per il vocabolario astruso, per il periodare confuso, quasi che l’amor di sé nell’ascoltarsi facesse aggio sul dovere di farsi intendere dagli ascoltatori, molti dei quali, non tutti, davano segni d’insofferenza sotto la patina di una compunta attenzione. Il peccato di “oscurità del linguaggio”, come mi piace chiamarlo, dipende dal vizio italico di aborrire la chiarezza, suprema virtù degli umani che vogliono e sanno dialogare davvero. Se ne avessi l’autorità, come ne ho l’ardire, ricorderei al ministro della Cultura che il nostro Galilei, il quale insegnò al mondo il metodo scientifico, non riuscì ad insegnare ai connazionali il genuino linguaggio italiano, tant’è che ripeteva agli altri, come io oso ripetere ad un ministro nientemeno: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi”.
La chiarezza è stata il vanto e l’aspirazione dei grandi italiani soltanto, mentre i piccoli sono affogati nel buio dell’espressione scritta e orale. Niccolò Tommasèo, il magistrale cultore della nostra lingua, definisce il vocabolo “chiarezza” da par suo, alla maniera di Galilei: “Chiarezza dicesi quel giudizioso ordine d’idee, e quella scelta di parole proprie e loro natural collocamento, per cui le cose esposte sono chiaramente intese da chi ascolta o legge”. Inoltre, pare che Catone il censore dicesse Rem tene, verba sequentur, padroneggia l’argomento, le parole appropriate verranno. Ma se le parole sembrano pronunciate o scritte a caso, extra vaganti, sorge il dubbio che l’argomento sfugga e l’espressione smarrisca il filo nella sconnessione delle parole.
È vero che Eraclito, uno dei giganti della filosofia d’ogni tempo, venne soprannominato “l’oscuro” a causa del suo stile criptico, che tuttavia rifletteva un pensiero profondo. Ma l’oscurità eraclitea era la forma di una sostanza, del permanente e dell’essenziale, mentre l’oscurità d’oggi nel parlare e scrivere è la forma di un accidente, del contingente e del marginale, cioè della banalità che rende omaggio all’attualità con i termini di una neolingua, la quale fa correre all’intera società il pericolo mortale paventato da Confucio: “Quando le parole perdono significato, il popolo perde la libertà”. Figuriamoci quando intere frasi esprimono nulla e comunicano l’incomprensibile. Flatus voci, più che altro.
Aggiornato il 15 ottobre 2024 alle ore 12:48