Il diritto è sicuramente una delle maggiori conquiste della razionalità umana e il diritto internazionale lo è ancora di più, nonostante la sua estremamente debole capacità di regolare davvero i rapporti fra gli Stati. Il cosiddetto Diu (Diritto internazionale umanitario) che vide la luce nel 1864 per poi essere aggiornato dalle varie Convenzioni di Ginevra, a sua volta, è un documento fondato su basilari principi di salvaguardia degli individui e delle popolazioni coinvolte in conflitti bellici ma non pare di grande efficacia a causa, fondamentalmente, dell’estrema varietà delle situazioni in cui vengono a trovarsi gli attori in gioco. L’idea centrale, schematica, allude genericamente al trattamento dei prigionieri di guerra e dei civili dopo la vittoria di un esercito regolare che si era contrapposto ad un altro, altrettanto regolare, in un chiaro e ben definito contesto di guerra. Ma le cose non stanno quasi mai così, come dimostra, fra l’altro, il caso della reazione militare che uno Stato intraprende nei confronti del terrorismo, argomento sul quale il Diu non ha competenza, limitandosi a richiamare i principi umanitari generali che lo caratterizzano.
La fattispecie in cui si collocano le azioni militari di Israele, impegnato a combattere su più fronti, è sicuramente uno dei casi in cui, fatti salvi i principi generali del Diu, nessuna condotta può, senza ambiguità, essere regolata “a tavolino” – questo si può fare, quest’altro no – anche perché il primo a non rispettare alcuna regola è, per definizione, il terrorismo il quale, a cominciare dalla strage del 7 ottobre, mostra di concepire il Diu come mera carta straccia assieme ai più elementari principi umani. Il carattere peculiare del conflitto attuale sta poi nel fatto che, attraverso una “geniale” dottrina meticolosamente concretizzata, la commistione fra popolazione e milizie, edifici abitati e sedi dei terroristi, in Palestina e in Libano, è decisamente estrema e, di conseguenza, la contrapposizione fra due eserciti, magari previa dichiarazione formale di guerra affidata ad eleganti ambasciatori con i guanti bianchi, è, come del resto in tutti i conflitti contemporanei, solo un pallido ricordo storico.
Ci si può semmai chiedere se, dopo il 7 ottobre, Tel Aviv avesse altre opzioni fra cui scegliere una strada per la comprensibile ritorsione ma, fino ad ora, non risulta essere stata indicata alcuna alternativa credibile anche perché, a differenza, teoricamente, del conflitto fra Ucraina e Russia, non si può certo invocare la via diplomatica fra uno Stato, Israele, e i vari gruppi terroristici. Una vera alternativa dovrebbe comunque mettere fine, una volta per tutte, a una situazione per la quale Israele è circondato da Paesi che non solo non ne riconoscono lo Stato, ma che intendono esplicitamente eliminarlo e che, a questo scopo, hanno cospicuamente militarizzato il suolo e il sottosuolo di tutta la regione. Altrettanto ci si può chiedere se la ritorsione militare di Israele, una volta presa la decisione, potesse essere “più leggera”, rispettando il criterio della proporzionalità che, anche secondo il Diu, mira a legittimare l’uso della forza in una misura tale da rendere possibile il conseguimento delle finalità militari senza eccedere e, soprattutto, senza coinvolgere la popolazione civile.
Un obiettivo, d’altra parte, assai difficile da quantificare e, per questo, lo stesso Diu si limita ad indicare la generica necessità di ridurre al minimo indispensabile il rischio di coinvolgimento dei civili. Purché, pare ovvio sottolinearlo, i civili non risiedano, volontariamente o meno, negli stessi luoghi in cui si trovano i terroristi i quali, così, se ne fanno cinicamente scudo. Una questione di difficile valutazione che richiama alla memoria, per portare un solo esempio, le decine di migliaia di morti civili a causa dei bombardamenti alleati sulle città italiane durante la Seconda guerra mondiale. Una cosa è comunque certa: gli israeliani non difettano di intelligenza e non potevano ignorare l’effetto negativo sull’opinione pubblica, sul piano internazionale, di una risposta militare in grande stile con effetti collaterali che, per quanto si sforzasse di minimizzare, sarebbero stati inevitabili nelle condizioni date. Dunque, delle due l’una: o Israele persegue non solo la distruzione dei gruppi terroristici ma anche, chissà perché, la prostrazione di intere popolazioni oppure, più semplicemente, non ha reali alternative che garantiscano la propria sicurezza. La seconda alternativa in effetti, non sembra tesa né a “esportare la democrazia”, né a intraprendere crociate religiose né ad acquisire il dominio assoluto nell’area medio-orientale, ma solo, si fa per dire, a garantire la propria esistenza fisica e politica.
Di fatto, mentre nei nostri salotti televisivi si discetta con grande sussiego e nelle piazze si urla una verità del tutto strabica e ideologica nel senso più deteriore del termine, in Israele si toccano con mano, e da decenni, la violenza più feroce e l’odio più minaccioso senza alcuna possibilità, per ora, di immaginare un futuro di pace e convivenza. In questo quadro, le prescrizioni del Diu come quadro di riferimento etico prima ancora che politico, sono senz’altro giuste e opportune ma la specificità del conflitto in corso mostra chiaramente come sia necessario, prima di esprimere giudizi definitivi, ricorrere ad un “principio di realtà” grazie al quale uno possa almeno immaginare con realismo cosa significherebbe passare dal salotto a quel tipo di campo di battaglia.
Aggiornato il 15 ottobre 2024 alle ore 09:15