Quando i termini o le locuzioni adoperate per definire una coalizione partitica indugiano più sul perimetro delle alleanze, che sull’identità politica delle stesse, il margine che separa la tattica contingente dalla strategia di lungo respiro irrimediabilmente si riduce a favore della prima. Il ché, tutt’al più, diviene un buon viatico per tentar di creare una maggioranza numerica in ottica elettorale, ma la costruzione di una progettualità lineare, inclusiva e coerente con i desiderata delle forze interessate è un qualcosa che si pone a metà tra un’aporia filosofica e l’adesione ad una antitesi contrapposta al nucleo valoriale del fronte avverso.
D’altronde se la demarcazione che separa le varie anime della coalizione sui vari ambiti tematici ‒ dalla sicurezza all’immigrazione, dal welfare al fisco, dell’istruzione alla politica estera, dal modello economico fino al sistema giudiziario e oltre ‒ si sostanzia non tanto su lievi divergenze programmatiche, quanto su abissi di natura culturale, va da sé che l’unico coagulante in grado di compattare il tutto assume una dimensione formale ancor prima che sostanziale. Una crosta di obiezioni che si sedimenta su contenuti per lo più lacunosi. La sintesi che lascia spazio al compromesso (peraltro di basso profilo). I propositi vengono snocciolati mediante l’ausilio di una semantica vaga e confusa in cui i concetti sono diluiti in un “mare magnum” di parole indistinte. È la vittoria del contro a svantaggio dei pro. Eppure, il mandato elettorale non dovrebbe essere un passe-partout per vincere bensì per governare. È una questione di infiniti, apparentemente molto simili sebbene distinti come il mare e l’entroterra liguri separati e al contempo congiunti da una “creuza de mä” ripida e stretta.
Aggiornato il 30 settembre 2024 alle ore 10:20