Woke ti odio! Fine di una dittatura

Chi l’avrebbe detto che la mouvance woke e con lei il wokism (un ibrido metà ideologia e metà dittatura mediatica) del “politicamente corretto” sarebbe rapidamente tramontato, almeno in America, stando all’accurata (e molto costernata) analisi del super quotato settimanale britannico The Economist.

Finalmente, il mondo occidentale mostra segni e segnali di grande stanchezza, nei confronti di una censura generalizzata della parola, che ha ossessivamente ricercato un nettoyage del vocabolario in tutte le lingue parlate, arrivando persino a cancellare e denunciare gli accadimenti e i personaggi storici, etichettandoli e quindi mettendoli al bando, in quanto razzisti, omofobi, schiavisti, colonialisti e politicamente scorretti.

Ora, tutto ciò non si è limitato a una mera operazione linguistica, per cui il reprobo ha diritto al suo bel cilicio simbolico e al rimprovero pubblico, ma ci si è mossi da parte dei wokist come se le violazioni al politically correct imperante dovessero essere considerate alla stregua di reato penale e, quindi, perseguibili in giudizio.

Per fortuna, la presunta offesa (e meno male) rimane procedibile solo a denuncia di parte e, pertanto, non può essere azionata da una collettività (più o meno estesa, come una class action) di persone sodali tra di loro, i quali, teoricamente, come gruppo di cittadini, si siano sentiti offesi dal medesimo soggetto e dalle stesse parole. Tuttavia, quella persecuzione collettiva mancata ha avuto però, nella sostanza, lo stesso risvolto pratico della condanna civile sui luoghi di lavoro e nelle università. È bastato, evidentemente, che una classe di studenti, i loro genitori, i colleghi woke del professore politicamente scorretto (per una determinata frase da lui detta o scritta, o per un testo, o una conferenza incriminata), perché il responsabile si sia visto rescindere un contratto privato di insegnamento, e messo all’indice, come molti giornalisti che hanno subito la stessa sorte, in una lista invisibile ma tangibilissima di proscrizione

Morale della favola: il puritanesimo woke ha inquinato tutto ciò che culturalmente poteva contaminare, dalla politica, alla moda, ai social media, ai comportamenti individuali. Ne è nato, certo involontariamente per i loro più accaniti sostenitori delle origini, una sorta di totalitarismo censoreo che ha condizionato la maggior parte dei comunicatori, degli editori di testate giornalistiche e di network, per cui di fatto si è gravemente amputata la libertà di parola e di espressione, soprattutto per quanto riguarda il linguaggio trasgressivo, che si fa beffe del mainstream e della sua dittatura mediatica. Per il diverso, il trasgressore, la sua condanna all’ostracismo gli veniva comminata da un tribunale impalpabile, ma diffuso orizzontalmente, che ne decretava (senza che mai venisse emesso un provvedimento, una decisione ad hoc della magistratura giudicante) la sua messa ai margini e l’espulsione di fatto dal circuito ufficiale di appartenenza. Basta chiedere alle molte migliaia di giornalisti, analisti, commentatori e professori universitari che in tutto il mondo occidentale si sono visti perseguitati e condannati moralmente, per capire in che razza di disastro mentale e di auto condizionamento si è andata a infilare l’intera civiltà di cui facciamo parte.

Ovviamente, l’Onu utilizza sistematicamente il woke per censurare i Paesi occidentali, grazie ai voti della stragrande maggioranza dei Paesi non allineati che ne fanno parte e che, sempre più spesso e regolarmente, si riconoscono nella galassia anti-occidentale del Global South.

Ora, non si sa se ridere o piangere, a questo punto, dato che proprio la maggioranza di quei Paesi che odiano il Global North adottano politiche e comportamenti totalmente scorretti.

Si pensi a come vengono perseguitati i loro cittadini nelle Nazioni piccole e grandi in cui prevale la Sharia e il diritto islamico, o che sono governati da dittature sanguinarie e intolleranti, mentre i loro popoli non hanno diritto a vedersi riconosciuto il minimo sindacale in materia di diritti dell’uomo, come la libertà di pensiero, sessuale, politica e di movimento. Di tutto questo tacciono le dotte statistiche commissionate e analizzate da The Economist, che invece produce una miriade di tabelle, grafici e analisi per constatare che sì, effettivamente, il fenomeno woke è in lenta ma inesorabile regressione soprattutto in America. Persino i giganti della Silicon Valley, che hanno investito capitali enormi per la diffusione del wokism, hanno avuto un ripensamento. Si prendano come metro di paragone gli eccessi gender della Walt Disney e del cinema di tendenza, che hanno visto la fuga degli spettatori dalle sale, con gli incassi ridotti al lumicino, cosa che ha costretto i loro promotori a liberarsi discretamente di tutta la retorica wokista.

Donald Trump, che nella sua campagna elettorale non se ne lascia sfuggire una, ha accusato l’ideologia woke di aver sabotato le forze armate americane. E un po’ si capisce perché, con la storia dei pari diritti gender, per cui gay di entrambi i sessi e trans gender hanno diritto a indossare la divisa e ad avere bagni diversificati e dedicati. Gli fa eco la piattaforma del Partito Repubblicano, che accusa il “governo wokedi incitare alla persecuzione politica dei politicamente scorretti.

Di fatto, si sta assistendo al declino netto del picco woke, registrato in America all’inizio degli anni ‘20 del XXI secolo, e la tendenza in regresso riguarda tutti i domini esaminati dal settimanale, quali pubblica opinione, media, educazione superiore e affari. Anche in quella che il settimanale designa come il corporate wokeness, dopo il picco registrato a seguito dell’assassinio di George Floyd da parte della polizia, il wokism è in costante regresso da due anni da questa parte.

Che l’aria sia cambiata, lo dice persino la campagna molto prudente della candidata democratica, Kamala Harris, che ha preso le distanze dalla forsennata linea wokista della pasionaria Alexandria Ocasio Cortez, il che le dà una qualche chance di giocarsi con Trump il voto moderato. Qui da noi, resta ancora da convincere Bruxelles: speriamo presto!

Aggiornato il 25 settembre 2024 alle ore 11:24