“L’interventismo è la malattia professionale di governanti, militari e burocrati”, ha scritto Ludwig von Mises, il grande economista e scienziato sociale austriaco, il quale ha poi sottolineato che: “L’interventismo non è un sistema economico, non è, cioè, un metodo che consente a chi lo adotta di conseguire gli obiettivi prefissati. È semplicemente un sistema di procedure che alterano e talvolta distruggono l’economia di mercato. Esso ostacola la produzione e impedisce il soddisfacimento dei bisogni. Non rende i cittadini più ricchi; li rende più poveri”.
Ebbene, in nessun altro settore, come in quello delle locazioni degli immobili urbani, l’interventismo è stato, da più di un secolo almeno e ancora oggi, così ampio e pervasivo. Quivi, con le sembianze della politica degli affitti e nell’abbondante concetto di controllo degli stessi, ha coperto un vasto spettro di regolamentazione, che si è esteso dalla fissazione dell’importo massimo di canone che può essere chiesto, senza aumenti o con limiti allo stesso, sino a restrizioni che possono riguardare altre clausole del contratto, come quelle che impongono una durata minima o il rinnovo automatico, in assenza di motivi di necessità.
In detti interventi sono altresì compresi quelli sugli sfratti, con la sospensione o il differimento dell’esecuzione del rilascio, nonché la determinazione automatica, e autoritativamente imposta, dell’affitto in base a parametri prefissati, il cosiddetto “equo canone”.
Cenni storici
Storicamente, il controllo degli affitti è già stato utilizzato a Roma nel 1470 per proteggere gli ebrei residenti dagli aumenti dei canoni di affitto. Essi, infatti, non potevano possedere proprietà nello Stato Pontificio, e tale divieto li faceva dipendere dai proprietari cattolici, i quali imponevano loro canoni elevati. Esso è venuto meno con la bolla Dudum a felicis del 27 febbraio 1562, con la quale Papa Pio IV ha riconosciuto agli ebrei il diritto di possedere proprietà fino a 1.500 scudi romani e decretato la stabilizzazione dei canoni.
Sisto V, a sua volta, nel 1586, con la bolla Christiana pietas, ha ordinato ai proprietari di affittare le case a prezzi ragionevoli agli inquilini ebrei, e ha altresì autorizzato ad abitare nelle città senza più l’obbligo di risiedere nel ghetto. Qualche decennio più tardi, Clemente VIII, con breve del 5 giugno 1604, prendendo spunto dalla necessità di risolvere un contrasto insorto nei vari ghetti fra proprietari e inquilini, ha sancito che, per nessuna ragione all’infuori di insolvenza, era permesso al proprietario cristiano di espellere l’affittuario ebreo, e che i canoni di affitto correnti alla data del breve dovevano rimanere bloccati in perpetuo.
In epoca più vicina a noi, si fa risalire al periodo della Grande Guerra, il primo provvedimento sugli affitti di cui al d.lgs. n. 788/1915, che intendeva agevolare i militari impegnati nel conflitto bellico e assicurare loro la conservazione della casa affittata. La misura concerneva il pagamento del canone e la durata dei contratti, attraverso il riconoscimento del diritto del conduttore a una proroga del rapporto fino a due mesi dopo la fine del conflitto. Per il suo prolungarsi sono stati poi emessi altri decreti (n. 403/1917 e n. 2046/1917), con i quali la misura è stata estesa a tutte le categorie di cittadini.
È iniziato così, in una fase delicata della vita del Paese, quello che sarà poi definito “regime vincolistico”, che neppure negli anni successivi abbandonerà il settore e che diventerà nel tempo sempre più stringente, sottraendo le locazioni immobiliari al mercato e alla volontà delle parti.
Il fascismo, che nel tempo ha mantenuto una posizione oscillante sulla questione degli affitti, ha seguito sostanzialmente la linea già tracciata, sancendo, da un lato, il divieto di aumentare i canoni, e disponendo, dall’altro, la loro riduzione, con percentuali differenziate, a seconda del numero delle stanze. È intervenuto altresì sugli sfratti, consentendo di dilazionarli sino a un anno. Durante il regime fascista si è pure registrata una breve stagione di libertà di contrattazione dal 30 giugno 1930 sino al 30 aprile del 1934, allorquando con il r.d.l. n. 563/1934 è stato ripristinato il sistema vincolistico, stabilita una riduzione coattiva dei canoni e persino imposta la trasformazione dei depositi cauzionali in titoli di Stato.
Dopo aver attraversato senza modifiche sostanziali il periodo bellico, il controllo degli affitti è stato mantenuto anche negli anni della Repubblica e ancora perdura.
Infatti, dopo varie proroghe nell’immediato periodo postbellico, sono stati via via adottati numerosi provvedimenti che hanno continuato a sottrarre le locazioni al mercato e all’autonomia delle parti e li hanno mantenuti in mano alla politica e alle sue decisioni. A partire dalla legge n. 253/1950 che, oltre ai principi generali del regime vincolistico, ha dettato disposizioni sulla proroga dei contratti, l’aumento dei canoni e sugli sfratti.
Altre norme si sono accavallate successivamente sino a una timida apertura con la legge n. 1521/1960, che ha autorizzato patti in deroga alla proroga e al blocco del canone. Altre iniziative, sono state quelle contenute nella legge n. 1444/1963 e poi nella legge n. 628/1967, ma esse hanno solo aggiunto altra confusione in una situazione già abbastanza frastagliata. Alla quale la legge n. 495/1973 ha tentato di porre rimedio, riunendo i contratti bloccati nel canone e prorogati nella durata, collegando la proroga al reddito delle persone fisiche e intervenendo sugli sfratti.
Altre successive disposizioni hanno ulteriormente aumentato la confusione e peggiorato il sistema vincolistico, almeno sino a quando la Corte costituzionale, pur dichiarando legittimo il principio del blocco dei fitti, ha espresso, a chiare lettere, la volontà di non consentire allo stesso di assumere carattere ordinario e definitivo.
Nonostante ciò, il controllo degli affitti è stato portato a conseguenze ulteriori con la legge n. 392/1978, detta dell’equo canone, con la quale lo Stato, intensificando e ampliando i suoi interventi a scapito della libera iniziativa e della proprietà privata, ha istituzionalizzato e dilatato il regime vincolistico, assecondando una spinta ideologica costruttivistica di un sistema alternativo al mercato. Tanto attraverso la predeterminazione autoritativa del contenuto del contratto, soprattutto della durata e del canone, e anche prorogando per altri anni la validità dei contratti in corso. Dopo quasi quindici anni, cenni di liberalizzazione sono cautamente affiorati con l’art. 11 del d.l. n. 333/1992, che ha cancellato l’equo canone per le case nuove e dato la possibilità di patti in deroga tra proprietari e inquilini in occasione dei rinnovi del contratto. Ulteriori passi in avanti sono stati poi compiuti con la legge n. 431/1998, che ha introdotto una tiepida liberalizzazione controllata dei contratti di locazione a uso abitativo. Da tale momento, non sono però mancati interventi di sospensione o proroga agli sfratti, che hanno ulteriormente compresso il diritto dei proprietari, e una tassazione patrimoniale oltremodo distorsiva.
Ragioni ed esiti della politica degli affitti
A sostegno della politica di controllo degli affitti sono state spesso allegate pretese esigenze di giustizia sociale (o distributiva), desunte nella necessità, ad esempio, di rendere economicamente accessibili gli alloggi. Essa ha sottinteso quella di fornire a ciascuna famiglia case in affitto a un canone ridotto, proporzionato al reddito dei lavoratori, ovvero misure antinflazionistiche, o per evitare eventuali “speculazioni” da parte dei proprietari, contenendo i canoni entro determinate soglie massime e limitandone l’aumento. Sono state anche esposte motivazioni redistributive della ricchezza, secondo cui il patrimonio dei più abbienti della popolazione, nei quali sono annoverati anche i proprietari di immobili, sia un fondo che può essere utilizzato liberamente per il miglioramento delle condizioni dei meno abbienti. In base a detta visione arcaica, i possessori di risorse economiche avrebbero potuto assicurarsi il maggior numero possibile di case in proprietà o altro, e lasciare gli indigenti senza abitazione o relegarli in alloggi non adeguati, come avrebbero pure potuto aumentare i canoni illimitatamente. Per porre rimedio a tutto ciò, poiché la casa soddisfa un bisogno fondamentale dell’individuo, e assicura all’occupante servizi come tetto e mensa, privacy, servizi igienici e altre cose, il suo approvvigionamento non può essere lasciato al mercato ma deve essere gestito dalla politica e dal governo attraverso interventi legislativi.
Ebbene, in nessun contesto siffatti interventi, al pari di quanto si deve in genere rilevare per i controlli sui prezzi di qualsiasi altro prodotto o servizio, hanno fornito gli esiti attesi, quanto hanno addirittura generato, come esiti inintenzionali, risultati contrari a quelli che si proponevano i fautori, peggiorando le condizioni anziché migliorarle. Invero, pure alla luce delle esperienze di diversi Paesi, quando in uno qualsiasi di essi sono stati imposti, secondo differenti modalità, controlli degli affitti, eludendo il mercato, è inevitabilmente diminuita la già scarsa offerta di alloggi in locazione. Innanzitutto, perché investitori e proprietari non hanno più trovato conveniente assicurare nuova offerta e preferito mantenere una limitata disponibilità di case in affitto, peraltro assicurando a esse una manutenzione minima e non esitando, ove hanno potuto, a svincolarsi dai lacci e lacciuoli della legislazione dirigista, anche modificando la destinazione d’uso delle unità immobiliari o altro. I costruttori, a loro volta, allarmati dai controlli, hanno evitato di edificare nuove unità e diretto i loro sforzi verso altri settori. Gli inquilini, infine, proprio a causa del controllo e delle limitazioni da essi imposti, sono stati incentivati a non lasciare gli appartamenti affittati e a continuare a beneficiare dei privilegi accordati, tra cui canoni inferiori al mercato. E ciò anche a discapito della mobilità e, persino, dei conduttori futuri e degli altri gravati da canoni più elevati, ai quali è stato pure impedito di trovare o di cambiare l’alloggio in locazione: “Il controllo degli affitti è una forma di controllo dei prezzi – ha rilevato l’economista canadese Michael A. Walker – che aumenta la carenza di alloggi e alla fine riduce la capacità degli inquilini di scegliere dove e in quali condizioni vivere”.
In definitiva, i principi economici, diversamente dai proclami della politica, sono senza tempo e non sono soggetti a capovolgimenti. Essi hanno spiegato che in un mercato privo di ostacoli, i proprietari sono costretti a soddisfare gli inquilini o a perderli in favore di altri proprietari. Anche per quello delle case, infatti, il mercato è concorrenziale, e il relativo processo tende a ridurre i ricavi dei proprietari, che non hanno “potere di mercato”, in quanto altri possono entrare nel mercato e ridurre o annullare l’offerta dei primi e, quindi, la relativa domanda di abitazioni; gli inquilini possono spostarsi verso altre case, a causa delle peggiori condizioni, delle clausole più restrittive o dei canoni più elevati. Eloquente in proposito la fotografia di William Watson sul Financial Post: “Che tipo di protezione hanno gli inquilini contro i proprietari senza scrupoli? Altri proprietari, e molti di loro”.
Ma quando lo Stato adotta provvedimenti di controllo degli affitti, essi, nel breve periodo sembrano avvantaggiare gli inquilini; ma l’effetto che si produce, nel lungo termine, è di scoraggiare la concorrenza e causare una limitazione all’offerta, una cattiva allocazione delle risorse e tutti gli altri effetti pregiudizievoli prima indicati. Tutte cose che hanno indotto l’economista svedese Assar Lindbeck, un socialdemocratico, a commentare: “In molti casi, accanto ai bombardamenti, il controllo degli affitti sembra essere la tecnica più efficace attualmente conosciuta per distruggere una città”.
(*) Presidente Confedilizia Calabria.
(**) L’articolo è tratto dalla pubblicazione del saggio “Controllare gli affitti, distruggere l’economia”
Aggiornato il 12 settembre 2024 alle ore 15:48