Nessun articolo è stato firmato in difesa di Gennaro Sangiuliano. Ma corre l’obbligo rammentare che i ministri hanno sempre costruito attorno alla propria persona una corte di favorite e favoriti. Il clamore attorno al “caso Maria Rosaria Boccia” fa tornare alla mente il metodo con cui nella vecchia Democrazia cristiana si regolavano i conti, sottraendo poltrone agli avversari. Negli anni Cinquanta e Sessanta i capicorrente dello Scudo crociato chiedevano agli amici, editori di rotocalchi e quotidiani, di sbattere il mostro in prima pagina. Ovvero rivelare allo Strapaese, intriso di moralismo cattolico, che il ministro Tizio o l’onorevole Caio, o anche il vertice di ente o ministero, aveva l’amante. L’amante, oscuro oggetto del desiderio, utile forse a eludere la gabbia d’una vita domestica programmata e morigerata, era il primo aspetto su cui indagava certa stampa. Soprattutto era il primo motivo di scandalo, superiore a qualsivoglia corruttela. Altro motivo di defenestrazione dalla vita politica era il famoso busto del Duce nello studio privato o a casa, in salotto. Amante e nostalgismo erano le principali cause che ponevano fine a fulgide carriere: non dimentichiamo che negli anni Settanta e Ottanta, grazie anche alla legge sul divorzio, nessuno più faceva caso alle scappatelle, si era diventati liberi, non più moralisti.
L’incidente, oggi capitato al ministro della Cultura, ieri colpiva il democristiano Fernando Tambroni. Quest’ultimo non solo veniva accusato d’avere come amante l’attrice Sylva Koscina, ma anche di concupire un certo nostalgismo, dovuto al suo passato da seniore della Milizia. Su Tambroni a metà anni Cinquanta già circolavano i cosiddetti “dossier riservati”. Li avevano confezionati, per conto Federico Umberto D’Amato, due amici dello stesso Tambroni, Gesualdo Barletta e Domenico De Nozza (entrambi ex Ovra, e la vicenda me la raccontava Mario Tedeschi a fine anni Ottanta). Motivo? Far emergere che il politico avesse l’amante e nutrisse anche nostalgia per il Ventennio. Tambroni scopriva i dossier nel momento in cui assurgeva a ministro dell’Interno, e i due amici (già camerati) gli confessavano che erano stati costretti dal suo predecessore: soprattutto la stampa vicina a Pci e Psi voleva cavalcare la relazione extraconiugale con l’attrice Sylva Koscina per azzoppare la sua carriera.
Il colpo di grazia arrivava nel maggio del 1960: quando il Msi alleato di Governo della Dc di Tambroni (che nel frattempo era diventato presidente del Consiglio) decideva di fare il Congresso a Genova. Le sinistre rispondevano con l’insurrezione di piazza per mettere in difficoltà il Governo Tambroni, poi i giornali scandalistici pubblicavano le foto che ritraevano il presidente del Consiglio in compagnia dell’avvenente attrice: repentina la caduta del Governo, con essa la fine politica di Fernando Tambroni e delle alle alleanze Msi-Dc. Il centrosinistra governerà sovrano fino all’avvento di Silvio Berlusconi: e vi evitiamo l’opera omnia sulle sue amanti, che ha alimentato programmi televisivi, sceneggiature di film e stampa avversaria.
Ma di casi se ne potrebbero elencare a bizzeffe. Non dimentichiamo la miseranda fine del ministro Attilio Piccioni a seguito del “caso Wilma Montesi”. A quest’ultimo il regista Giorgio Bianchi dedicava Il moralista che, interpretato da Alberto Sordi, riassumeva gli echi di polemiche, lotte politiche e scandalismo basati su storie di amanti, soprattutto la corruzione imperniata sull’avvenenza delle maggiorate (era la moda femminile dell’epoca). Sordi interpretava il ruolo di un colto (anzi erudito) burocrate, nella vita quotidiana censore e moralista fino ai limiti dell’assurdo: nei fatti un losco individuo, che usava donne avvenenti per ingraziarsi i potenti e fare carriera (come Gianpaolo Tarantini che portava Patrizia Daddario dal Cavaliere).
Ma in quella Dc i panni sporchi li lavavano in famiglia: c’era così un potente parlamentare e ministro lucano che amava andare con giovani ufficiali, e anche un esponente veneto che di notte s’infilava nei seminari poiché attratto dai giovinetti avviati al sacerdozio. Debolezze gelosamente custodite, erano segreti inconfessabili per Dc e Vaticano: soprattutto nessuno voleva dare certe notizie in pasto alla stampa, nella convinzione che questo avrebbe screditato la classe politica italiana, allontanando l’uomo di strada dalle urne. Perché nell’Italietta confessionale, fatta di lavoratori e gente semplice, andava salvato “il comune senso del pudore” (nel 1976 divenne il titolo di un film proprio di Alberto Sordi).
Ne deriva che Gennaro Sangiuliano è per molti aspetti vittima dello scandalismo dei nostri giorni. Uno scandalismo peloso, utile anche a bloccare l’azione di Governo, non ultime le imminenti nomine in Rai. Sappiamo bene che l’opposizione sta utilizzando i casi Arianna Meloni e Gennaro Sangiuliano per convincere il primo ministro a non mettere i propri uomini in Rai. Va aggiunto che recentemente Gennaro Sangiuliano è incorso in uno scontro con un importante collezionista italiano (nonché imprenditore ed editore) che vorrebbe la sua caduta dal Ministero della Cultura. Poi Sangiuliano non è gradito a certi potentati internazionali che vorrebbero mettere le mani sulla musealità italiana. Tutti aspetti che il ministro conosce meglio dello scrivente, e che avrebbero consigliato una certa prudenza fanfaniana: ovvero dimostrarsi grato con l’amante, ma lontano dai riflettori. Perché il giornalismo italiano non è cambiato dagli anni Cinquanta ad oggi: avranno pure il computer e i social ma rimangono pennivendoli animati da sinistro moralismo.
Aggiornato il 06 settembre 2024 alle ore 13:04