Ma veramente è sufficiente che un migrante sappia cantare a pappagallo l’inno di Mameli per poterlo considerare italiano? E siamo sicuri che questo poveraccio, certamente in fuga o illuso sulle prospettive offerte l’Europa, sia lavorativamente contrattualizzabile?
Sfatiamo subito il mito che i migranti possano pagarci le pensioni da qui a cent’anni, perché su mille che sbarcano scarsi dieci rispondono ai requisiti previdenziali richiesti per una contrattualizzazione secondo le norme Ue ed i D.Lgs. 27-6-2022 n. 104 e D.Lgs. 30-6-2022 n. 105.
Soprattutto la maggior parte dei migranti non ha i titoli, o non può dimostrarli, per assicurarsi l’assunzione a norma di legge. E chi li premunisce di titoli, creandoli dal nulla, commette un reato di falso in atti pubblici: sappiamo bene che l’Italia è piena di Caf sindacali e cooperative (tutti attrezzi della sinistra) specializzati nel mentire alla pubblica amministrazione, nel certificare percorsi formativi inesistenti e false generalità del migrante.
Basta andare sulla Gazzetta Ufficiale per documentarsi sugli obblighi alla base della “vita lavorativa” e su chi rientra nella “tutela lavoratori”. Chi non ha adempiuto agli obblighi formativi non è contrattualizzabile, e solo dopo una regolare assunzione i nuovi obblighi periodici sono a carico del datore di lavoro. Non è nemmeno più possibile sostenere che “dobbiamo mandare i migranti a zappare la terra o raccogliere frutta e ortaggi”. Perché ogni contratto di lavoro subordinato, ivi compreso quello agricolo, sia a tempo indeterminato che determinato o parziale, richiede che il dipendente dimostri di essere in regola con il percorso formativo. Ed ogni contratto, registrato falsificando i titoli ed i percorsi formativi, è una chiara ingiustizia verso coloro che hanno la cittadinanza italiana, residenza certa in un comune italiano e, soprattutto, un irreprensibile percorso formativo certificato a livello europeo.
Nemmeno i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o i contratti di prestazione occasionale possono prescindere dalla legge. È evidente che alcune forze interne alla Chiesa cattolica, al volontariato ed ai sindacati, stiano chiedendo al Governo ed alla Pubblica amministrazione di chiudere più d’un occhio, di dare a tutti una possibilità in barba alle leggi. Qui si consuma l’ingiustizia: perché per contrattualizzare un italiano il datore di lavoro deve documentare al Caf che sbriga la pratica (perché in collegamento telematico con Inps ed uffici vari) anche il più recondito pelo della vita del nuovo dipendente ed invece per il migrante si possono falsificare certificazioni od omettere dati?
Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare agli enti preposti, e sotto responsabilità penale ed amministrativa, che di ciascun lavoratore, in modo chiaro e trasparente, è certo dell’identità, della residenza o del domicilio. E vi sembra che la maggior parte dei migranti abbia residenza certa, in casa a norma e con regolare contratto?
Poi di ogni lavoratore deve essere certificato l’inquadramento, il livello, la qualifica attribuita: certificando che il lavoratore ha ottemperato a corsi formativi a norma Ue. Una domandina semplice: in che lingua avrebbe seguito i corsi di formazione?
Anche l’importo della retribuzione, o di qualsivoglia compenso, prevede venga parametrato ai requisiti formativi, ai titoli: diversamente diventa anche opaca la modalità di pagamento, che non può comunque più avvenire con danaro contante bensì con bonifico bancario. Quindi al migrante, oltre ad essere orchestrata la falsificazione di titoli e percorsi formativi, necessita trovare una banca che accolga a braccia aperte un nuovo cliente di cui non è certa identità, nazionalità, residenza e domicilio. Un bell’affare per il sistema economico italiano.
Va detto che alcuni datori di lavoro possono trovare un affare in queste contrattualizzazioni: mettendosi d’accordo con il migrante sull’emissione di false buste paga, taroccando nel contratto anche l’ammontare minimo delle ore retribuite garantite e la retribuzione per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite. Et voilà, il gioco è fatto: il datore di lavoro raccomanda il migrante al funzionario della banca con cui lavora la sua impresa. Quindi versa al nuovo dipendente lo stipendio per intero, poi lo accompagna ogni fine mese in banca a prelevare i contanti (al migrante nessun cassiere chiede il motivo del prelievo) e si fa consegnare a nero gran parte della busta.
Ovviamente nella tipologia contrattuale il datore ha già pattuito il termine entro cui può annullare l’incarico: così spremuto il limone, beffata la previdenza e gli obblighi, va a cessare il rapporto di lavoro. Tutto a norma di legge, e con la complicità del sindacalista del Caf che prima ha redatto il contratto collettivo (anche aziendale) applicato al rapporto di lavoro, e poi lo ha strappato con la compiacenza delle parti che lo hanno sottoscritto.
E gli enti e gli istituti che ricevono i contributi previdenziali e assicurativi dovuti dal datore di lavoro? E quelle strabenedette risorse di cui parlava la presidente Boldrini? E i monitoraggi automatizzati di enti previdenziali e uffici del lavoro? Tutti occhi chiusi?
Ma il primo ad essere eluso è stato l’articolo 11 delle sopra menzionate leggi: l’obbligo di cui al comma l, a quella formazione professionale necessaria al lavoratore per ottenere, mantenere e rinnovare contratto e qualifica professionale (come già enunciato negli articoli 36 e 37 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81). Oggi l’aggiornamento semestrale, annuale, triennale e quinquennale della formazione specifica dovrebbe subire un monitoraggio dagli enti preposti.
Provate a chiedere del suo lavoro ad un operatore ecologico (salvo poche eccezioni prossime alla pensione) e scoprirete di essere a cospetto di uno che sa di chimica, logistica del trasporto dei rifiuti e biologia: molti operatori ecologici italiani (un tempo netturbini) sono laureati e specializzati, soprattutto ottemperano alla formazione continua. Stesso discorso vale per medici, ingegneri, giornalisti, avvocati, magistrati…
Ora qualcuno (e sappiamo chi) ci sta chiedendo di chiudere più d’un occhio, di infrangere la legge, di fare carte false. Questa non è accoglienza e nemmeno si dimostra un modo per colmare i buchi previdenziali o la scarsa manodopera nei comparti agricoli e manifatturieri. E non veniteci a raccontare che potrebbe essere la prospettiva vincente per ripopolare paesi e campagne disabitate, perché non è chiaro con quali titoli verrebbero firmati i contratti di cessione di immobili e terreni: per questi ultimi è necessaria l’iscrizione all’Inps agricola, e dopo esame sostenuto nelle ex camere di commercio ed agricoltura (uffici pubblici certificatori che dopo la “riforma” chiamiamo con altri e variopinti nomignoli).
Poi chi paga le imposte di registro per cessione di case ai migranti? Il Parlamento dovrebbe legiferare “imposta zero sulla cessione di case a migrante extracomunitario”. Allora si consumerebbe l’ennesima ingiustizia, promuovendo una discriminazione patrimoniale in danno degli italiani, che già subiscono quella lavorativa. E se una parte della Chiesa ci chiede questo, noi di rimando rispondiamo che gli italiani già pagano Imu, Tari, Tasi e vari balzelli per ogni soggetto che opera in nome di una mondialistica “povertà sostenibile”.
Aggiornato il 30 agosto 2024 alle ore 13:37