Il futuro della Giustizia del punire: tra incertezze, negazioni, innovazione e recessioni giuridico-penali
Quando un fatto reale si trasforma in un evento virale, la sua gestione diventa complessa e sfumata, piene di mille tonalità di grigio, poiché si aggiungono molteplici elementi estranei, spesso di dissenso e critica non sempre costruttiva. Questo fenomeno amplifica le difficoltà nel trattare la questione in modo equilibrato e nel proporre soluzioni adeguate al contesto in gioco. Quando si parla del sistema carcerario, e in particolare del Decreto legge 92/2024, noto come “Decreto legge Carcere sicuro”, le implicazioni diventano ancora più complesse. Emanato con l’intento di affrontare e risolvere le problematiche legate alla sicurezza e alla gestione dei penitenziari, si colloca in un contesto giuridico e sociale poco conosciuto, specialmente se non si fa riferimento alle sezioni detentive, piuttosto che genericamente al “carcere”. Le applicazioni pratiche di questo decreto sono spesso trascurate, a meno che non emergano fatti di cronaca che ne sottolineano gli aspetti negativi; dopodiché, però, tutto tende a tornare alla “normalità” che in questo contesto ha un significato tutto proprio.
Il Decreto legge 92/2024 può essere paragonato, con un minimo di fantasia, al mito di Giano bifronte, con due facce che rappresentano due proposte apparentemente risolutive, ma in realtà contraddittorie e distanti nella loro applicazione pratica. Come Giano, che aveva due teste che guardavano in direzioni opposte, le due misure principali del decreto sembrano offrire realtà più ambigue e potenzialmente problematiche che vere. Da un lato, la riduzione della liberazione anticipata, elemento reale, storicamente legata al buon comportamento del singolo con influenze, per il buonumore, nella gestione dell’ordine interno, appare come una misura severa che potrebbe aumentare la tensione nelle sezioni detentive. Questo intervento, pur mirato ad assicurare una “pena certa”, non considera le complessità e le dinamiche carcerarie, rischiando di aggravare la situazione con un maggiore rischio di scontri e disordini. Dall’altro lato, le misure alternative, dichiarate e attuabili tra tre mesi, che dovrebbero servire a mitigare il sovraffollamento, si presentano come una soluzione potenzialmente efficace ma che, nella pratica, rischia di rimanere un mero proclama. La differenza tra queste misure e la liberazione anticipata.
Il passaggio dei tossicodipendenti dalla detenzione alla comunità terapeutica può essere considerato una soluzione a doppio taglio. Se da un lato alleggerisce le carceri di un gran numero di detenuti, dall’altro risulta problematica poiché se viene applicata “ope legis”, cioè in modo automatico e non su valutazione specifica del magistrato di Sorveglianza, che tiene conto della volontà e del comportamento del soggetto. Le misure proposte e concesse in base al Decreto legge 92/2024, avvengono attraverso un processo generico che non garantisce un’effettiva riuscita del percorso terapeutico. In questo modo, appaiono più come provvedimenti di carattere amministrativo che come strumenti mirati alla riabilitazione. Si ricorda che le comunità non sono strutture vicariali del carcere ma alternative dove non vi è posta alcuna azione per trattenerle, salvo il convincimento terapeutico. L’efficacia di queste misure dipende fortemente dalla loro concreta attuazione: se non ben gestite, rischiano non solo di non risolvere i problemi strutturali delle carceri, ma di aggravarli. Il ritorno in carcere dei detenuti è un rischio concreto, soprattutto perché il trasferimento in comunità appare più come un’imposizione che una scelta consapevole. Questo approccio forzato potrebbe minare seriamente il percorso terapeutico, rendendo tali misure non solo inefficaci, ma addirittura dannose. Peraltro, le misure alternative sono legate a delle prescrizione, e la fuga dalla comunità, porta generalmente, al reato di evasione, quindi il ritorno e la permanenza in carcere si moltiplica come durata. In opposizione al mito di Giano bifronte, dove le due teste guardano in direzioni opposte per acclamare le iniziative del dio, qui declamano l’opposto, di come si vuole siano: la soluzione attuale più burocratica che reale, genera confusione anziché una visione univoca e coerente, finendo per ignorare la tensione reale nelle sezioni detentive e risultando inefficaci nel trattare i problemi strutturali.
Un miglioramento del sistema penitenziario richiede capacità di considerare sia i detenuti che il personale della Polizia Penitenziaria non come entità opposte e incompatibili, ma come parti di un unico quadro complesso e le soluzioni non possono avvenire per compartimenti stagni, mancando di una vera integrazione e lasciando prevalere il disaccordo su un equilibrio che potrebbe rendere il sistema più efficiente e umano. Importante che le soluzioni, non siano prevaricanti fra loro, ma permettano, anzi favoriscano, il buon vivere nelle sezioni detentive.
Crisi nelle carceri: due proposte a confronto
La situazione carceraria italiana è critica: sovraffollamento, degrado e conflitti rendono le strutture simili a campi di battaglia. Le proposte di riforma devono essere non solo attuabili e legittime, ma rispettare il principio di Pacta sunt servanda, principio non attuabile se non si riconosce a priori il Decreto legge 92/2024. Tuttavia, le misure alternative alla detenzione, come quelle previste per pene residue inferiori a un anno, possono risultare inefficaci a causa delle lungaggini burocratiche e della mancanza di risorse. I detenuti con pene brevi o residui, privi di supporto esterno e non accompagnate da un programma individualizzato appaiono come “indulti mascherati”. Si sta rinnovando l’errore del 1976, con l’introduzione dell’Ordinamento penitenziario, nell’aver ritenuto le misure alternative idonee a risolvere il sovraffollamento carcerario, compito che è proprio di indulti o amnistie. Un altro aspetto è la gestione delle risorse economiche destinate alle nuove norme, che rischia di compromettere la sostenibilità del sistema se mal gestita. L’efficienza non significa duplicare l’esistente, ma creare qualcosa di nuovo. Un esempio è quanto proposi del 2008 di “Casa Giustizia”, strutture ricavate da edifici pubblici dismessi, oggi riproponibili per detenuti in attesa di misure alternative o rimpatrio. Relativamente al rimpatrio è necessario distinguere tra detenuti Ue e extra-Ue, in particolare quelli provenienti da Paesi con regimi che non riconoscono condanne esterne.
Serve una legge europea che uniformi le procedure di estradizione e garantisca un trattamento omogeneo. Per i Paesi dell’Ue, l’esecuzione della pena all’estero, dovrebbe consentire loro di scontarla nel proprio Paese, mantenendo il collegamento con il giudice naturale tramite videoconferenze. Il caso di Chico Forti, da fatto umano dovrebbe essere portato a sistema in quanto dimostra la possibilità di scontare la pena nel proprio Paese, mantenendo i contatti, in videoconferenza, col giudice naturale del Paese dove ha commesso il reato. I contatto con il giudice naturale tramite videoconferenze anche per i gradi successivi di giudizio ed esecuzione pena
Per quanto riguarda i detenuti con disturbi mentali, si apre un lungo e doloroso capitolo di mal gestione. Questi individui dovrebbero ricevere un trattamento di eccellenza, poiché la malattia mentale è una presenza costante nella loro vita, una condizione che non li abbandona mai. Solo una terapia condotta in strutture adeguate, dove prevalga la cura rispetto alla detenzione, potrebbe rispondere ai loro bisogni. Ciò che propongo non è una rivisitazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), dove la custodia prevaleva sulla cura e dove i pazienti erano trattati in modo spesso disumano.
Al contrario, auspico la creazione di ospedali specializzati, esterni al contesto carcerario, a differenza di quanto erano gli Opg. La chiusura degli Opg è stata giusta, ma non si è adeguatamente riflettuto su dove collocare gli ex internati. L’ipotesi, piuttosto romantica e poco realistica, che il contesto esterno potesse aprire le porte all’accoglienza di questi individui-malati è stata quasi del tutto disattesa. Se si fosse consultato il personale operativo, anziché solo docenti universitari o dirigenti che non avevano mai avuto contatti diretti con i malati mentali detenuti, si sarebbe compreso che la prolungata permanenza negli Opg non era tanto dovuta alla pericolosità dei soggetti quanto alla mancanza di strutture di accoglienza post-detentive. La famiglia o le case di riposo per anziani erano le uniche opzioni di riferimento, ma entrambe inadeguate: la famiglia, spesso parte lesa, non è in grado di garantire un’adeguata terapia, né tantomeno di fornire un ambiente sicuro. Le case di riposo per anziani inadeguate o perché il soggetto creava timore a prescindere e veniva isolato o perché giovane e quindi non solo isolato dal contesto ma era lui stesso ad auto isolarsi trovandosi inadeguato e allontanava senza meta la casa di riposo, con violazione delle prescrizioni o commissioni di reati per la sopravvivenza e ritorno, allora in Opg ora in carcere.
La cura delle malattie mentali deve avvenire in luoghi specifici, non nei reparti detentivi delle carceri, la cui presenza è assicurata da poliziotti non da infermieri che per formazione e mandato non possono offrire un’assistenza adeguata. Da questi contesti, escono malati quasi certamente più malati e si rischia di restituire alla società individui che hanno sì scontato in osservanza della pena certa, tutta la pena, ma le cui condizioni di salute mentale che restano incerte, lasciando alla famiglia il peso di un’accoglienza spesso rifiutata. Alternative: poche e spesso inadeguate. La soluzione è possibile. Ora ci sono molti ospedali dismessi, perché non renderli operanti e fornitori di servizi? Nel 2008 ho fornito, in merito un progetto, ma inascoltato. Un malato mentale in libertà appartiene ai suoi diritti civili, ma se per libertà significa un ritorno al carcere questa non è offrire libertà è offrire carcere. La trasformazione delle carceri che si chiede è un bilanciamento tra controllo e innovazione, possa consentire una gestione più umana e una valorizzazione del personale penitenziario, impegno non dilazionabile né derogabile, che passa anche per una diversa modalità custodiale del berretto e delle chiavi, certamente più umana delle chiusure elettriche, ma rimasta ferma nei secoli. Ridefinire le responsabilità e non lasciarle all’agente ultimo arrivato in quanto si considera il lavoro nelle sezioni il “peggio”, rattrista. Questo giudizio, se mantenuto, può rappresentare la fine di un Corpo che non sa riconoscersi nel mandato istituzionale partendo dai gradi più elevati dirigenti compresi. Il cambiamento se lo si vuole deve avere un’adesione convinta dei detenuti ai programmi di trattamento, al fine di evitare ulteriori sanzioni conseguenti alla mancata osservanza delle regole stabilite. È essenziale ricordare che il carcere non deve trasformarsi in un luogo di impunità e illegalità, né tantomeno in un mercato clandestino dove si favorisce il traffico di sostanze stupefacenti o il passaggio illecito di dispositivi mobili. Tali fenomeni dichiarati nei comunicati sindacali e descritti non come episodi isolati o marginali, rappresentano una palese violazione della funzione stessa della pena, che ha il suo cardine nel rispetto rigoroso della legalità.
Se il carcere deve essere il luogo in cui si esegue una pena giusta e legale, fondata sul rispetto rigoroso della norma, il “buonismo” di matrice ideologica, che tende a privilegiare una visione compassionevole e romantica del reo a discapito del dolore provocato alle vittime, si configura come un vero e proprio attentato al principio di giustizia. Tale atteggiamento rappresenta un oltraggio alla memoria del danno causato col reato e negando la finalità rieducativa della pena, la quale non può prescindere dall’osservanza scrupolosa delle regole. Una concezione della sanzione penale ridotta a mera clemenza rischia di minare alla radice l’autorità dello Stato e l’inviolabilità della giustizia, dimenticando che al centro della risposta penale deve rimanere la tutela della legalità e dei diritti delle vittime. In uno Stato di diritto, la Giustizia non può piegarsi alla compassione né all’inerzia di consuetudini superate: deve evolversi costantemente per fornire risposte attuali e concrete, capaci di prevenire la recidiva e tutelare sia le vittime che è nei doveri dello Stato. Lo Stato, infatti, ha il dovere di garantire la sicurezza dei suoi cittadini attraverso strumenti che rispettino e valorizzino i principi della Carta Costituzionale, mantenendo saldo il delicato equilibrio tra giustizia, legalità e diritti.
Aggiornato il 29 agosto 2024 alle ore 12:05