Il dibattito sull’autonomia differenziata si sta facendo sempre più rovente. I suoi avversari hanno raccolto, nel giro di qualche settimana, centinaia di migliaia di firme per indire un referendum abrogativo della legge Calderoli. I critici dell’autonomia raccontano un mondo che non esiste: le nuove disposizioni possono piacere oppure no, ma raccontarle come l’anticamera della secessione è semplicemente ridicolo. E non solo perché, ovviamente, si tratta della mera attuazione di una modifica costituzionale risalente al 2001. In particolare, l’autonomia non potrà determinare alcuna differenza nella distribuzione delle risorse economiche tra le Regioni né darà luogo ad alcun cambiamento della ripartizione dei denari tra le Regioni che accedono all’autonomia e quelle che non lo fanno. Questo è un punto fermo della legge Calderoli, che infatti prende le mosse dalla definizione dei livelli essenziali di prestazione e affida a essi il ruolo di guida dell’intero processo. Al limite, si potrà discutere sul modo in cui essi verranno stabiliti e le metodologie di calcolo: ma, fino a quel momento, si litiga sul nulla.
Proprio per questo è anche improbabile che l’autonomia differenziata rappresenti quella risposta alla “questione settentrionale” che il Paese attende da 30 anni. O che davvero squaderni l’architettura centralistica dello Stato italiano. Essa infatti è altra cosa dal federalismo fiscale: pur avocando a sé maggiori competenze, le Regioni non potranno conquistare il diritto di imporre nuovi tributi né di ridurre quelli esistenti, perché non viene ribaltata la piramide fiscale. Ovvero la responsabilità del prelievo resta sempre in capo a Roma. Otterranno al massimo una compartecipazione al gettito e – si spera – un margine di manovra in più in relazione ai servizi di cui reclamano la gestione. Ma, anche in questo caso, eventuali risparmi o efficienze non significheranno maggiori risorse per le regioni virtuose, in quanto torneranno nella disponibilità del Tesoro. Detto questo, chi attacca il Governo su questo tema, sembra sostenere che l’autonomia rischi di “scassare” modalità di erogazione dei servizi pubblici attualmente ineccepibili. Fa sorridere anche solo l’idea che sia l’autonomia a mettere a repentaglio, per esempio, l’istruzione. La qualità dei servizi pubblici erogati dallo Stato centrale è quella che è. Tanto peggio le Regioni non potranno fare.
Aggiornato il 07 agosto 2024 alle ore 13:58