Quella della Rai è una riforma che pochi partiti, politici, sindacalisti vogliono. L’azienda pubblica (l’azionista al 98 per cento è il Ministero dell’Economia) è stata per decenni lo strumento di potere dei tre principali schieramenti italiani: democristiano, socialista e comunista. La primitiva forza di Governo Dc garantiva e tutelava gli interessi della maggioranza moderata e cattolica degli italiani, senza escludere gli orientamenti laici e liberali. Il primo momento di svolta è stata la riforma del 1975, con il riconoscimento del peso dei socialisti ai quali venne affidata la guida della Rete due, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che metteva fine al monopolio tivù, consentendo la nascita delle televisioni private, in primis di Silvio Berlusconi. La consacrazione della lottizzazione è avvenuta nel dicembre 1979, quando a casa di Antonio Tatò (braccio destro di Enrico Berlinguer, segretario del Pci) si riunirono Biagio Agnes, con Clemente Mastella, Enrico Manca, Walter Veltroni sollecitato da Angelo Guglielmi e Sandro Curzi per “spartirsi” la gestione dell’azienda pubblica.
Rai 1 alla Dc, Rai 2 ai socialisti, Rai 3 ai comunisti, con qualche spolverata di repubblicani e liberali. Le vicende di questi 45 anni sono note. Le tensioni a Viale Mazzini, a Saxa Rubra, a Via Teulada si sono ripetute soprattutto in conseguenza dei cambiamenti che si sono alternati a Palazzo Chigi. Niente, però, è eterno. La cronaca e la storia sono imprevedibili. Arriva così a Palazzo Chigi una donna che ha fatto la gavetta da militante politica e quella giornalistica nei movimenti di destra. Coloro che hanno occupato posizioni direttive di vertice non gradiscono Spoils system di nessun genere. Più il Governo è debole e più ci sono possibilità di manovra. L’offensiva contro Giorgia Meloni è iniziata appena dopo il 21 ottobre 2022, quando ricevette dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’incarico di formare il primo Governo tutto di destra. Il mondo della sinistra ha mal sopportato che la campanella fosse passata dalle mani di Mario Draghi all’esponente che si era inventato il partito Fratelli d’Italia, in crescita di elezione in elezione.
I consensi spingono ora Giorgia Meloni (dopo i tanti riconoscimenti a livello internazionale come al G7, l’incontro con il leader cinese Xi Jinping, l’amicizia con Ursula von der Leyen) ad accelerare sul dossier Rai. Le sfide sono duplici: varare subito il vertice, scaduto, di Viale Mazzini e costruire un assetto che aggiorni e superi la legge Renzi sulla governance. Per la prima sfida i protagonisti di punta del centrodestra sono pronti: Simona Agnes, Giampaolo Rossi, Roberto Sergio e altri esperti di tivù e telecomunicazioni. Negli ultimi mesi gli intellettuali e alcuni giornali di sinistra hanno sparato alzo zero per indebolire le possibilità che il Governo metta in campo una gestione più pluralista, equilibrata del passato. Il caso del dossier sullo stato di diritto presentato dai burocrati di Bruxelles e la reazione del premier hanno alimentato una bufera sulla libertà dell’informazione in Italia. Irreale data la presenza di quattro grandi gruppi editoriali (Rcs, Gedi, Caltagirone, Riffeser) e di 4 aziende radiotelevisive (Rai, Mediaset, La7 di Cairo editore anche del Corriere della sera e della Gazzetta dello sport e Discovery). Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha comunicato di essere pronto a calendarizzare le votazioni per i due membri previsti per il Cda Rai. Lo stesso è per gli altri due della Camera e i due che saranno indicati dal Ministero dell’Economia. Il settimo in rappresentanza dei dipendenti è David Di Tullio, che sostituirà Riccardo Laganà. Per la governance i partiti dovranno formulare le loro proposte. Giorgia Meloni ha già fatto sapere che non è favorevole a una “privatizzazione del servizio pubblico”. I modelli europei di tivù statali sono tanti e diversi.
Aggiornato il 02 agosto 2024 alle ore 10:59