La rivoluzione liberale, quella vera e quella falsa

Un concetto utilizzato a destra e a sinistra, ma lontano dal vero significato e dalle iniziative che possono considerarsi veramente rivoluzionarie in senso liberale

Un’espressione davvero abusata è senza dubbio “rivoluzione liberale”. È diventata ormai una sorta di etichetta alla moda da apporre a iniziative politiche, economiche e legislative, ed è così diventata ambigua, tant’è che spesso è finanche adoperata quale veicolo per i peggiori illiberalismi. Da Romano Prodi, che nel 2006 commentava l’approvazione di un pacchetto di riforme, arditamente battezzate liberalizzazioni, dichiarando alla stampa: “Abbiamo realizzato la rivoluzione liberale”. A Matteo Salvini, attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il quale, nel salutare il decretosalva casa” lo ha enfaticamente definito una “rivoluzione liberale”. E ciò unicamente perché, adoperando la legislazione, ossia lo strumento tipico dell’interventismo statale, ha soltanto allentato la morsa che stringe facoltà del diritto di proprietà e la libertà individuale di scelta abitativa. Non si vede infatti cosa ci sia di tanto “rivoluzionario” nell’aver ora consentito di realizzare, tra le altre cose e sempre nell’ambito di un recinto normativo, opere di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, come tende e pergolati, in regime di edilizia libera, oppure di costruire locali con un’altezza minima interna inferiore a 2,70 metri, fino al limite massimo di 2,40 metri, o alloggi a singola stanza, per una persona, con una superficie minima, comprensiva dei servizi, inferiore a 28 metri quadrati, fino al limite massimo di 20 metri quadrati e, per due persone, inferiore a 38 metri quadrati, fino al limite massimo di 28 metri quadrati.

È intuitivo che, quando si discorre di rivoluzione liberale non si evocano, come normalmente si è portati a pensare, confronti fisici con lo Stato: erezione di barricate nelle strade, scontri con la polizia, assalto alla Bastiglia o agli altri edifici del potere. Questa, in realtà, sarebbe solo una piccola parte della rivoluzione. Essa è invece un processo potente, complesso e di lunga durata, un movimento complicato con molte parti e funzioni vitali. È il giornalista, il professore, il partito politico o il sindacato, il teorico, il filantropo, e tante altre figure di intellettuali, pensatori. È tutto questo e molto di più. Ogni persona e gruppo ha la sua parte da svolgere in questo grande movimento complesso.

Riguardata da diversa prospettiva, una rivoluzione, che sia soprattutto liberale, richiede invece di abbandonare la credenza, alimentata da una lunga propaganda e da un’ideologia piuttosto fallace e distruttiva, che spetti all’apparato pubblico la direzione degli affari economici e il compito di risolvere ogni problema. Cose queste che hanno portato il potere a sconfinare dai propri limiti e a estendere il più possibile l’ambito della propria influenza. Occorre, al contrario, porre al centro la teoria liberale, la cui applicazione ha consentito il funzionamento di molte attività e il benessere residuo del quale gli individui godono, anche se si è assai poco consapevoli di ciò. La pietra angolare è costituita dall’idea che la libertà individuale di scelta sia un prodotto della limitazione della sfera d’intervento del pubblico potere. Il territorio che quest’ultimo lascia poi libero deve essere occupato dalla cooperazione sociale volontaria, la quale è un gioco a somma positiva, cioè è un processo in grado di migliorare le posizioni di tutti i partecipanti. Essa alimenta un gigantesco processo di mobilitazione delle conoscenze e delle risorse materiali, che modifica permanentemente la frontiera tra possibile e impossibile e ci consente di esplorare l’ignoto e sottoporre a continua correzione gli errori.

In tale contesto sarà pertanto fondamentale porre rimedio all’azione dilapidatoria degli apparati politici e burocratici, dismettere l’interferenza statale da molti settori cruciali e dar corso a un massiccio programma di privatizzazioni e a una vasta azione di de-regolamentazione e liberalizzazione. In sostanza, è indispensabile avviare il progressivo ritiro dello Stato, per consentire il ripristino del gioco naturale delle interazioni sociali e, di conseguenza, la riespansione del mercato e della cooperazione sociale volontaria. È necessario, in definitiva, adoperarsi avendo come obiettivo il progresso economico e sociale, il quale è impossibile senza un mutamento che sostituisca il vecchio col nuovo e in assenza di una vera transizione verso un’economia concorrenziale, che deriva proprio da un ampio progetto di liberalizzazioni e privatizzazioni, cose queste devono procedere assieme.

Privatizzare, è ovvio, non significa trasferire “un pezzo” di Stato in una S.p.a posseduta, o comunque controllata grazie a una golden share, dallo Stato medesimo, come si è fatto sino a oggi. Né equivale a modificare il modus operandi dell’azienda pubblica introducendo metodologie, logiche e metodi propri delle aziende private senza modificare tuttavia la natura giuridica ed economica dell’azienda considerata. Allo stesso modo, liberalizzare non equivale affatto alla sostituzione di una norma maggiormente restrittiva con un’altra che lo è un po’ di meno, oppure aprire alla concorrenza tra privati per l’acquisizione di beni o la gestione di servizi che rimangono in capo allo Stato e agli enti pubblici. Neppure aumentare di numero licenze e concessioni, ovvero consentire l’espletamento di attività in settori in cui continua a esserci un soggetto pubblico (come avviene ad esempio nell’istruzione, nelle ferrovie, poste e altro), che mantiene una posizione privilegiata.

Liberalizzare e privatizzare significa affrancare la vita economica dalla presenza di politici e burocrati di Stato, rafforzare la proprietà, tagliare la spesa pubblica e le tasse, eliminare controlli sul mercato e restrizioni nell’economia, soprattutto nei settori come telefoni, gas, elettricità, acqua, trasporti, dei servizi finanziari (dal sistema bancario alla Borsa), sanitari, assistenziali e della previdenza, del mercato del lavoro e delle professioni, dell’urbanistica e dell’edilizia, delle locazioni. In una parola, dar corso alla rivoluzione liberale, quella vera, che presuppone che l’individuo sia libero dall’ingerenza dello Stato e le cose si possano svolgere liberamente senza intervento dell’autorità. Il cui potere deve essere pertanto limitato. Ciò non equivale però a farne a meno. Come Ludwig von Mises ha rilevato, “quel che caratterizza il punto di vista liberale è l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata e non l’avversione per la “persona” dello Stato”. Mentre Friedrich von Hayek ha aggiunto: “Il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che, se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione non può essere interamente eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia (…) di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri”. Il potere pubblico è pertanto insopprimibile. Tuttavia, lo stesso non può assumere le dimensioni dello Stato massimo, né sostituirsi ai consociati in quello che essi possono fare autonomamente, ma deve limitarsi a svolgere una funzione di servizio nei confronti della libera cooperazione sociale volontaria. Ossia: al potere pubblico deve essere demandata la “produzione di sicurezza”, ma i bisogni devono essere soddisfatti tramite la libera cooperazione sociale.

Aggiornato il 30 luglio 2024 alle ore 11:27