Con Publio Fiori muore un pezzo di Roma

Il 16 luglio abbiamo salutato con immenso dispiacere Publio Fiori, uno tra i principali protagonisti della scena politica romana. La notizia della sua scomparsa ha sconvolto chi ne ammirava l’umiltà, la tenacia, l’abnegazione con cui ha difeso i valori cattolici. L’alfiere della destra democristiana era un gentiluomo dotato di due pregi: amava il dialogo e rispettava le istituzioni. Qualità molto rare, se consideriamo, da un lato, i rigurgiti populisti che impediscono il libero confronto tra le idee; dall’altro, il sentimento anti-parlamentare rinfocolato dagli strepiti dei grillini e dei paragrillini. Placido, sobrio e signorile (ma non per questo privo di carisma), Publio Fiori era capace di modernizzare gli schemi – e di scontentare i quadri dirigenti dell’epoca – grazie alla sua apertura della Democrazia cristiana ai giovani. Fu emblematico il caso della fondazione-rivista Idea popolare, nella quale confluirono decine di aspiranti politici desiderosi di un rinnovamento generazionale all’interno della Dc, come gli allora ventenni Francesco Aracri e Alfredo Antoniozzi. Gli esponenti più anziani dello scudocrociato guardavano a Fiori con sospetto; lui proseguiva imperterrito la sua battaglia contro lo status quo. Senza badare ai malumori interni, riusciva a conquistare la simpatia dei cattolici.

Già capogruppo della Dc nella Regione Lazio e deputato per sette legislature, Publio Fiori ha dimostrato una caparbietà inscalfibile, persino negli ultimi mesi di vita. Attualmente era impegnato nella creazione di un movimento che riunisse le sigle eredi della Balena bianca, superando la frammentazione della galassia centrista. Se questo (ennesimo) tentativo rifondatore fosse andato in porto, forse la diaspora democristiana sarebbe cessata dopo trent’anni di conflitti, rivalità e scissioni dell’atomo. Ma, ormai, qualsiasi ipotesi sulla Dc 2.0 à la Fiori risulterebbe vana. Non dimentichiamo che il pasionario teocon era sbarcato su X lo scorso anno: ho avuto l’onore di scambiarci qualche battuta. La sua energia mi ha sorpreso, i suoi modi cordiali rivelavano una gentilezza d’altri tempi. Attraverso brevi pillole video, Fiori raccontava con orgoglio il senso del cattolicesimo politico a coloro che, per motivi anagrafici, non hanno conosciuto la Prima repubblica. Riusciva a farlo in maniera estremamente efficace: formidabili le stoccate all’ideologia gender e alla mutazione genetica del Pd di Schlein. Purtroppo, non sarà più possibile ascoltare quelle perle di saggezza esibite con democristiana disinvoltura. Proprio lui, che era sopravvissuto miracolosamente a un attentato delle Brigate rosse nel 1977 e sembrava immortale, ci ha lasciati all’improvviso la scorsa settimana.

La sua scomparsa si carica di un significato simbolico. Non è solo il decesso di un personaggio pubblico, ma è la morte di un pezzo di storia della borghesia capitolina. Publio Fiori incarnava la quintessenza della Roma laboriosa, benestante e intellettualmente vivace che ha reso grande la Capitale dal Dopoguerra in poi. Un milieu eterogeneo, costituito in prevalenza da famiglie ad alto reddito e da liberi professionisti (ingegneri, medici, notai, architetti, avvocati come lo stesso Fiori) che era accomunato dalla capacità d’iniziativa e da una formazione visceralmente anticomunista. L’alta borghesia era radicata – e si concentra tutt’oggi, benché con alcune variazioni – nel quadrilatero che parte dalla via Cassia, lambisce le rive dell’Aniene a ridosso di Monte Sacro, si sviluppa nei rioni del centro storico e raggiunge il complesso urbanistico dell’Eur più a sud. Spostandoci nell’estremità settentrionale di questo poligono immaginario, troviamo il cuore di una realtà così peculiarmente connotata: il Municipio II, la piccola circoscrizione che include i quartieri Flaminio, Parioli, Pinciano, Salario e Trieste – e che, in seguito alla ridefinizione dei confini municipali approvata dall’ex sindaco Gianni Alemanno nel 2013, ora comprende anche il Nomentano e il feudo rosso di San Lorenzo. È stato questo l’avamposto di Publio Fiori, il recordman di preferenze che ha galvanizzato Roma nord dal 1994 al 2006.

Durante Tangentopoli, Publio Fiori fu il primo a denunciare l’inconciliabilità dei moderati con i post-comunisti dopo i segnali d’intesa tra Mino Martinazzoli, il segretario del rinato Ppi, e il Pds guidato da Achille Occhetto. Dopo aver abbandonato il partito in polemica con l’appeasement verso i figli di falce e martello, sostenne convintamente la candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma nel 1993. Il leader della destra nazionale era affiancato da un entourage estraneo alla storia del Msi: il docente universitario Domenico Fisichella, il generale Luigi Ramponi, l’ingegnere Gaetano Rebecchini, il fisico iscritto al Pli Giuseppe Basini, il giornalista Rai ed ex eurodeputato Dc Gustavo Selva. Era iniziata la transizione della Fiamma su posizioni di stampo occidentale. Forte da sempre nel quadrante nord di Roma, il Msi “allargato” ambiva a intercettare il consenso dei liberali classici e dei conservatori law & order, dei laici e dei cattolici. Insomma, voleva diventare la piattaforma della maggioranza silenziosa che costituiva l’asso portante di quel territorio. L’operazione ebbe un esito positivo: Fini ottenne il 35,8 per cento al primo turno e il 46,9 per cento al ballottaggio e registrò il miglior risultato a livello circoscrizionale nel Municipio II, dove il Msi e la lista civica in suo appoggio prevalsero sui Progressisti di Francesco Rutelli. I tempi stavano cambiando. L’anacronistico cordone sanitario che isolava i missini andava sgretolandosi e il Mattarellum favoriva le alleanze in chiave bipolare. Inoltre, grazie al ruolo di Silvio Berlusconi, sembrava prendere corpo l’intuizione tatarelliana di un polo del buongoverno collocato nel centro-destra dello spettro politico. Di lì a qualche mese sarebbe nata Alleanza nazionale, di cui Fiori fu il co-fondatore.

La luna di miele tra Publio Fiori e il suo municipio è durata per oltre un decennio. Se osservassimo le mappe elettorali di Roma nella Seconda repubblica, potremmo notare una travolgente onda blu nei quartieri che corrispondevano al collegio uninominale della Camera dei deputati in cui Fiori era candidato (Roma-Trieste). Questa roccaforte del centrodestra berlusconiano presentava una caratteristica che la rendeva unica nel suo genere. Alleanza nazionale e Forza Italia si attestavano al primo e al secondo posto in tutte le elezioni (politiche, provinciali, regionali). L’eventuale calo di uno dei due partiti era compensato dalla crescita dell’altro, e viceversa. Un riequilibrio fisiologico dei rapporti di forza che assicurò a Publio Fiori una terna di successi. Nel 1994 staccò di ben 20 punti la rivale del Pds (la sfida terminò 52 per cento a 32 per cento) e fu eletto ministro dei Trasporti e delle telecomunicazioni nel Governo Berlusconi I. Due anni più tardi fu riconfermato con la stessa percentuale e fece volare An al 32 per cento – è incredibile come, da solo, il partito di maggioranza relativa avesse un peso analogo alla coalizione di sinistra del 1994. Nel 2001, l’anno dell’exploit degli azzurri, Fiori ripeté ancora il suo trionfo e divenne vicepresidente della Camera. Tutti i partiti di centrodestra furono al di sopra della media nazionale, come è possibile evincere dai dati del collegio. Nella sezione 153, in via Pietro Mascagni, la somma delle liste di Publio Fiori raggiunse il 49,1 per cento. Record nella sezione 61, presso piazza Winkelmann, dove il centrodestra prese un ottimo 52,4 per cento.

Qualcosa cominciò a cambiare negli anni successivi. Le elezioni provinciali del 2003 segnarono una battuta d’arresto per la Casa delle libertà: la scarsa affluenza alle urne e un clima sfavorevole al governo in carica fecero galoppare i Ds che, fino a poco tempo prima, erano in affanno. Giovanna Melandri fu la prima donna della Quercia ad essere scelta dai cittadini del Municipio II come loro rappresentante a Palazzo Valentini. La sua affermazione inaspettata suscitò l’entusiasmo dei giornali d’area. L’Unità titolò giubilante: “Parioli-Italia, la prima volta della sinistra”. Con l’avvento della nuova legge elettorale, il cosiddetto Porcellum, si perse il vincolo tra l’elettore e l’eletto che aveva decretato le vittorie di Publio Fiori. Il quale, deluso dalla retorica a suo avviso troppo “aperturista” di An sui temi etici, lasciò il partito che aveva contribuito a fondare nel Congresso di Fiuggi. Iniziò, dunque, il lento declino delle forze liberalconservatrici nella loro culla romana.

L’ultima parentesi amministrativa del centrodestra nel Municipio II ha visto l’ascesa della giovanissima Sara De Angelis nel 2008 ma si è conclusa in modo rocambolesco, con il fuoco amico della maggioranza e le sue dimissioni anticipate. L’ex collegio di Publio Fiori ha subìto dei cambiamenti demografici che ne hanno modificato radicalmente l’identità politica. Il fiore all’occhiello di Roma nord ha lasciato spazio al degrado morale e all’abbandono di una Ztl che esclude, anziché includere. Un numero considerevole dei residenti storici si è trasferito altrove; alcuni quartieri sono diventati un ricettacolo di radical chic; l’agiatezza economica di certa borghesia “riflessiva” ha spinto la gauche caviar a ignorare i problemi della quotidianità o, addirittura, a disprezzare il prossimo perché “poco inclusivo”. Quanto di più lontano dalle tesi di Publio Fiori, che risultava scomodo a sinistra perché era attento ai vulnerabili, pur provenendo da un retroterra conservatore e benestante.

Il sogno della destra borghese di Fiori sembrava essere naufragato. Bisogna ammettere che Fratelli d’Italia sia riuscito nell’impresa di ricostruire un patrimonio ideale che rischiava di smarrirsi con lo scioglimento del Popolo della Libertà. E la leadership di Giorgia Meloni ha gettato i semi di una nuova stagione conservatrice. Tuttavia, FdI è diversa da Alleanza nazionale in un aspetto: se il partito di Fini primeggiava nei salotti della Roma bene, il movimento guidato da Giorgia Meloni raccoglie numerosi voti nelle zone periferiche di Roma, laddove il primo centrodestra non era mai riuscito a incidere. Un punto a favore della premier che, però, non deve indurla a trascurare il legame con l’alta borghesia. Se il centrodestra vuole tornare a vincere nel Municipio II, deve anteporre alla protezione sociale le parole d’ordine della libertà: meno tasse, riduzione della burocrazia, sgravi fiscali per famiglie e imprese, apertura ai giovani e all’elettorato urbano, enfasi sull’individuo e rifiuto del collettivismo, incontro della tradizione con il progresso. Speriamo in un tempestivo cambio di rotta. Publio ne sarebbe fiero.

Aggiornato il 30 luglio 2024 alle ore 10:26