La presidente Meloni e l’asino di Buridano

I profondi movimenti della politica interna e internazionale stanno ponendo la presidente del Consiglio nella condizione cosiddetta del “paradosso dell’asino”. L’asino di Buridano sarebbe morto di fame per l’incapacità di scegliere tra due identici mucchi di fieno. Ma è null’altro che un aneddoto. Tuttavia fa capire che ormai Giorgia Meloni è al bivio della sua vita politica di leader, sia del Governo sia del partito. Sono i fatti della contemporaneità che la spingono a dover scegliere. Non può più navigare con la bussola del passato (e non alludo, suvvia, al fascismo, postfascismo, neofascismo di stampo novecentesco!) ma neppure trastullarsi con un tradizionalismo da modernariato, in bilico tra l’accettazione consapevole della classica democrazia liberale e il nuovismo pseudodemocratico e pseudoliberale che minaccia la democrazia stessa.  

Detratta la posizione nella Nato sulla difesa intransigente dell’Ucraina, in coerenza con la rocciosa determinazione di Sergio Mattarella, la politica della Meloni nell’Unione europea presenta le pieghe dell’attendismo, con venature furbesche contrarie anche al carattere assertivo e volitivo della premier, sempre orgogliosamente rivendicato. La prudenza nel decidere dove e con chi andare nel Parlamento di Bruxelles è comprensibile alla luce della conservazione della maggioranza di Governo, che pare ormai sottoposta a una forza centrifuga. La presidente del Consiglio non potrà rinviare sine die un chiarimento dell’indirizzo politico. Matteo Salvini e Antonio Tajani sembrano i due mucchi di fieno dell’aneddoto. Però Giorgia Meloni potrà e dovrà scegliere perché non sono né uguali né equivalenti, come nel paradosso dell’asino.

Viene poco o punto sottolineato, anche dai più autorevoli commentatori della politica nazionale, che un Governo, e per noi il Governo Meloni, non può essere solidale a lungo nella politica interna e dissociato nella politica estera, seppure sui generis come la politica europea. Il distacco tra le posizioni estere di Meloni e Salvini ha raggiunto ormai il grado della divaricazione, sia nella collocazione nel Parlamento europeo, sia nella politica della Commissione. Benché in forma meno drastica, esiste altresì un divario tra Meloni e Tajani. Questa “separatezza”, che non è solo di facciata, tra i partiti della maggioranza governativa italiana su capisaldi della politica estera non giova all’Italia né nell’Unione europea, né negli Stati extraeuropei.

Giulio Andreotti disse che, per il presidente del Consiglio, tirare a campare è meglio che tirare le cuoia. Ma la presidente Meloni non ha mai avuto, finora, l’inclinazione a considerarlo un suo mentore. Perciò dovrebbe abbandonare la paralizzante filosofia di Buridano e abbracciare la logica decisoria del “terzo escluso” di Aristotele. Se è vera, come è vera, la politica euroatlantica, in ogni senso, la politica euroasiatica è falsa, in ogni senso. La scelta è imposta dalla ragione. Mettersi a cercare il bandolo elettorale della matassa francese non serve. Gli ultimi casi d’Oltralpe provano che, al dunque, i voti sono determinati dall’opinione dei votanti, che perciò dev’essere coltivata e indirizzata verso la libertà sperimentata nella storia, senza fraintendimenti ideologici e cedimenti opportunistici, cioè verso la società aperta e i suoi amici.

Aggiornato il 15 luglio 2024 alle ore 12:54