La traiettoria nefasta della sinistra rivoluzionaria italiana

Dal sinistrismo degli anni Sessanta al nuovo giovanilismo anarco-sovversivo

 Delineare un’esaustiva analisi storica del rivoluzionarismo giovanile della sinistra italiana nel suo complesso, come radicale contestazione globale della società e dei suoi valori, non è un’operazione che possa esaurirsi nell’arco di un succinto scritto destinato a una divulgazione opinionistico-giornalistica. Di conseguenza, si cercherà di inquadrare sotto un profilo storico-critico un fenomeno così complesso e articolato, intriso di suggestioni radicali, utopistiche e anarcoidi, comunque tutte riconducibili a un riesumato rivoluzionarismo sinistroide, ben interpretato oggidì da forze politiche presenti nel panorama istituzionale del Paese, che, come una metastatica riapparizione dagli anfratti più tetri della storia nazionale, sono riapprodate a una risoluzione giacobina e settaria nei confronti di un’Autorità governante, di stampo liberaldemocratico, legittimamente eletta dal popolo.

Tutto questo, allo stato, trova il suo consolidamento in episodi di violenza nelle università – e non soltanto – traducentisi in occupazioni, tentativi di sfondamento dei cordoni predisposti dalle forze dell’ordine e di ferimenti di agenti, assalti a presidi di Polizia e violenze varie, da parte di studenti, incoraggiati dai nostri partiti di sinistra e “scarafaggi” al proprio servizio, a trasformarsi in agitatori rivoluzionari: ciò in nome soprattutto del fondamentalismo islamico e della liberazione delle terre palestinesi oggetto di aggressione, a loro dire, di stampo nazista da parte dello Stato israeliano, ma non meno che di intransigenti posizioni ambientaliste estreme nonché di altre tematiche ribaltate su presunte violazioni di svariati diritti civili – fluidità di genere, maternità “globalizzata”, rivoluzione alimentare e via dicendo – poste in atto da un governo reazionario e sostanzialmente filofascista. Insomma, trattasi di una sorta di risveglio marxista-leninista, la cui tattica è sì quella leninista ma l’ideologia che la sorregge è tornata ad essere – così come già si è ben evidenziato in “ritorno al futuro passato” dello scorso anno, che descrive il tragico itinerario, pressoché senza soluzione di continuità anche dopo la perdita dei suoi riferimenti dottrinari, del comunismo in Italia da Palmiro Togliatti a Elly Schlein – quella maoista e cheguevariana: una specie di “prova d’orchestra” per l’inizio di nuove stagioni terroristiche, volte a destabilizzare e a sovvertire la governance in atto. Una contestazione cieca, proveniente da confusione mentale e che si avvale di un linguaggio spesso demenziale, che si svolge, purtroppo, in un ambiente spesso affetto da vigliaccheria se non proprio da succube accondiscendenza, ciò che peraltro non è nuovo nel panorama accademico italiano sin dai primordi del sovversivismo irregolare di sinistra negli anni Sessanta. Ma anche su questo versante, vale a dire sul perché le università siano egemonizzate dalla sinistra, s’impone un serio tentativo di analisi critica che valga altresì a fornire un adeguato diagramma interpretativo in ordine al ruolo degli intellettuali, portatori di una dogmatica “neoilluministica” ideologia progressista nella società attuale, costituita per lo più, a loro vedere, da uomini mediocri.

In siffatta ottica, non v’è dubbio che, nonostante siano trascorsi tanti decenni di esperimenti da incubo nel mondo reale, la costruzione teorica del socialcomunismo non ha mai allentato del tutto la presa sull’Intellighenzia, talché l’attuale classe degli intellettuali, nella sua stragrande maggioranza, si autorappresenta come una sorta di classe sacerdotale, la cui religione è il sinistrismo. Varie sono le teorie in proposito elaborate dalla folta schiera di studiosi – solo per citarne alcuni, Raymond Aron di L’oppio degli intellettuali; Jules Monnerot di Sociologie de la révolution; il cattolico Edward Feser, docente di filosofia del Pasadena City College, storico delle idee, assai attento al pensiero liberale e conservatore – i quali hanno affrontato, sotto varie angolazioni, il problema della responsabilità dell’intellettuale progressista nel cedimento della cultura universitaria, in modo particolare della conoscenza umanistica, a quella che è stata definita la “truffa intellettuale del marxismo”. Senza volerci addentrare nella descrizione analitica di siffatte idee, si mostrano particolarmente interessanti, la Teoria del “filosofo-re”, che parte dall’idea della superiorità dell’intelligenza dell’intellettuale, il quale pertanto dovrebbe dirigere tutto, ciò che sarebbe favorito dall’incremento del potere statale così come avviene nei regimi socialisti, e la Teoria dell’interesse di classe, per cui la classe dei professori, occultata dietro l’ipocrisia del noblesse oblige, si presenta appunto come un nuovo ceto sacerdotale con la sua religione socialista che fornisce allo Stato-Moloch la giustificazione metafisica della sua esistenza, in cambio di un’occupazione stabile nelle fabbriche statali della propaganda: è la classe dei cortigiani di Stato!

Questo superficiale excursus di teorie – tutte sostanzialmente prendono avvio dalla concezione della superiorità della classe degli intellettuali, sempreché di sinistra (“l’intellettuale organico”) e ben si sposano con la “teoria dell’egemonia” di gramsciana memoria, come cardine della predominanza culturale marxista-leninista, che poneva a centro non tanto la conquista dello Stato bensì quello dell’intera società civile – fornisce un efficiente quadro di lettura di ciò che accade oggi non solo nelle università, in cui l’orientamento di sinistra diventa quindi soltanto un mero corollario della sua propensione alla sovversione, bensì anche nel restante mondo della scuola, come pure in quello dell’informazione, del cinema, delle case editrici e dei premi letterari. Un’inclinazione questa che continua a risentire delle passate suggestioni rivoluzionarie provenienti dai movimenti di liberazione del Terzo mondo, frutto di un mai del tutto sopito influsso del pensiero marxista, vero motore della “lotta rivoluzionaria”, di cui il movimento studentesco, ora come allora, costituisce un momento fondamentale di attuazione. Insomma, una sorta di riesumata “Teologia della liberazione”, quel movimento cattolico che prese avvio nell’America Latina negli anni Sessanta e che aveva finito per assimilare l’analisi sociale marxista, i cui principali interpreti furono il brasiliano Hélder Pessoa Câmara, vescovo di Recife, e soprattutto il prete colombiano Camilo Torres Restrepo, morto combattendo in un’azione di guerriglia: questi, divenuto un’icona del movimento, avrebbe influenzato profondamente la coscienza della sinistra extraparlamentare italiana con la pubblicazione, nell’anno 1967, del suo Appello alla violenza rivoluzionaria come l’unica via possibile per i poveri per ottenere giustizia nel mondo. Più tardi altri autori di spicco si sarebbero aggiunti, da Gustavo Gutiérrez ad Hugo Assmann, da Leonardo Boff a Jon Sobrino.

Ma quello era anche l’anno in cui don Lorenzo Milani, prete cattolico radicale nato a Firenze, pubblicava il libro Lettera a una professoressa, che, connettendo il cristianesimo alla causa rivoluzionaria, finiva per connotare di una dimensione cattolica la “lotta di classe”; il libro sarebbe divenuto un testo sacro, di pari dignità dei Dannati della Terra di Frantz Fanon. Ed è proprio in quell’anno che, per un assieme di motivazioni, tra cui la rivoluzione culturale in Cina, avevano a verificarsi parecchi trambusti in ambito accademico, cosicché i giovani, similmente a quanto avviene oggi, incominciarono a dare “l’assalto” alle università italiane; infatti, nel mese di novembre verranno occupati gli atenei di Trento, Milano e Torino. Solo come breve parentesi, v’è che il mito del giovanilismo non era affatto nuovo nella storia d’Italia, un mito che ha percorso tutto il Novecento: basti pensare alle riviste – dal Leonardo al Regno e a La Voce di Giuseppe Prezzolini – tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, tutte espressioni di un mondo giovanile dotato di una grande vivacità intellettuale, sostanzialmente traducentesi in opzioni individualistiche.

Le idee di Georges Sorel – i cui antefatti ideologici possono farsi risalire al superomismo di Friedrich Nietzsche, all’individualismo assoluto di Rudolf Steiner, al vitalismo di Henri Bergson, alla filosofia dell’azione di Maurice Blondel – innescavano il mito della violenza creatrice, come vero e proprio strumento di lotta politica. Proprio il Futurismo, i cui principi erano enunciati nel manifesto di Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, finirà per coagulare tutti gli aspetti di una contestazione globale della società tradizionale e dei suoi valori, esprimendo da un lato posizioni attigue agli anarco-sindacalisti e dall’altro ingredienti patriottici, ideali di forza e di coraggio, amore di avventura e virilità militari che glorificavano la conquista e la guerra, tutti elementi che, incanalandosi nel nazionalismo più spinto, si risolveranno nella creazione del mito di un Uomo nuovo: un mito che, finendo per confluire in quello dello Stato nuovo, diverrà la base del nascente fascismo, il fascismo rivoluzionario, il fascismo movimento, che poi sarà destinato a soccombere di fronte alla logica del fascismo-regime. In ogni caso, in siffatta articolata mitologia era prevalente anche una pars construens, vale a dire una progettualità politico-sociale che, rifacendosi direttamente a virtù eroiche, patriottiche e nazionali, esprimeva – a differenza di quanto avverrà invece dopo il secondo conflitto mondiale – un coacervo di valori positivi pur senza sacrificare i contenuti etici del movimento. Di certo, la caduta nella polvere del fascismo avrebbe trascinato con sé il patriottismo della nazione, anzi il concetto stesso di nazione, per cui i giovani faticheranno non poco a riemergere nella scena politica, una politica che non era facile ripensare ex novo “oltre il fascismo”, talché prendeva piede il culto dell’antifascismo e soprattutto la politica giovanile del Partito comunista, in primis attraverso la sua principale organizzazione, la Federazione giovanile comunista italiana (Fgci).

Ma tornando alla questione dei sommovimenti degli studenti scoppiati nel 1967, la contestazione studentesca vera e propria prenderà avvio l’anno successivo, anche a causa del forte impatto dei moti studenteschi che nel 1968 si stavano verificando in Francia, non meno che per l’avversione nei confronti della guerra del Vietnam, ciò che consolidò nel movimento l’orientamento a scorgere nell’inefficienza del sistema universitario un altro segnale della subordinazione dell’Italia agli Usa. Certamente, l’università si stava rivelando inadeguata a fronte delle nuove sfide della società di quegli anni, e non soltanto in Italia ma in tutto il mondo occidentale e industrializzato; però – com’è stato anche acutamente osservato – la contestazione studentesca esprimeva il “malessere” esistenziale dei “figli del benessere”, talché essa finirà per costituire un passo fondamentale per il movimento generale della lotta rivoluzionaria contro il capitalismo. Insomma, non era più una questione di riforma universitaria, bensì la creazione di uno strumento umano al fine di attuare la rivoluzione sociale finalizzata al definitivo superamento del sistema occidentale del Dopoguerra, così come formatosi in alternativa al comunismo. Modelli di riferimento diventavano la Cina contadina della Rivoluzione culturale o il rivoluzionarismo romantico di Ernesto Che Guevara, piuttosto che il terzomondismo di Fanon o la condanna dell’impegno militare statunitense in Vietnam.

Comunisti – ed è allarmante il parallelo con quello che in parte avviene anche oggi – erano i professori che nelle università si piegavano alle imposizioni più ridicole, come la farsa degli esami con “voto collettivo”, cosicché erano proprio i docenti a mostrarsi ideologicamente servili, avendo preso a prestito una massima cinese: “Il dovere delle università è di formare intellettuali ligi al socialismo”. Insomma, sia la Scuola che l’Università, un ambiente complessivo ormai disperatamente vigliacco, si ridussero a luoghi di sopraffazione fisica e di miseria intellettuale. In siffatta situazione, il nostro Paese si affacciava nel baratro degli anni Settanta, allorquando le frange più estreme e politicizzate si inducevano a unirsi alla protesta operaia e a confluire in una “nuova sinistra”, che si poneva come alternativa allo stesso Partito comunista, composta da svariati movimenti extraparlamentari, tra cui il più importanti sarà Lotta continua, fondata nel 1969, che porterà alle più estreme conseguenze il dialogo teorico tra cattolici e marxisti in Italia; cosicché, una vasta componente di cattolici si univa ad Adriano Sofri nel lanciare il movimento. Infatti, in successione, arriveranno a Lotta continua, da lunga esperienza di leader cattolici nel movimento studentesco, Marco Boato, Paolo Sorbi, Luciano Pero, Francesco Schianchi e Luigi Manconi. Il pensiero comune di costoro era che Lotta continua avrebbe offerto loro l’opportunità di attivare il verbo rivoluzionario che don Milani e Camilo Torres Restrepo ritenevano essere implicito nel cristianesimo.

Nel 1970 nasceva a Milano anche quel gruppo rivoluzionario con il nome tristemente noto di Brigate rosse, cosicché alle bombe dello stragismo neroStrage di piazza della Loggia e quella del treno Italicus – fecero presto da contraltare i primi morti frutto della violenza di tale gruppo. Gli articoli di Lotta continua sul terrorismo affermavano sostanzialmente la legittimità del diritto fondamentale del proletariato di esercitare la propria giustizia contro i nemici di classe, così come tutta la stampa di sinistra – similmente a quanto avviene oggi sebbene in forme e toni diversi – si rifiutò di vedere il problema del terrorismo come un problema della sinistra. Come ebbe a scrivere Giampaolo Pansa, fu l’epoca del camuffamento, in quanto, per non confessare che il terrorismo proveniva dalle file della sinistra, si cominciò a parlare di “sedicenti” Brigate rosse, di fascisti travestiti, di agenti di servizi segreti addetti alla strategia della tensione e via dicendo. Solo più tardi il camuffamento fu più aderente alla realtà, per cui i terroristi diventavano soltanto compagni che stavano sbagliando.

Lotta continua si sciolse nel 1976; purtuttavia molti dei suoi membri più estremisti trovarono casa in Prima linea, il gruppo terroristico più importante dopo le Brigate rosse, mentre altri si unirono a un altro importante gruppo terroristico, i Nuclei armati proletari (Nap). Soltanto a partire dal 1976, a seguito dell’omicidio del magistrato Francesco Coco e soprattutto dopo l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro nel 1978, iniziò una reale presa di coscienza circa la vera matrice politica e culturale delle Br, sebbene Rossana Rossanda scrivesse sul Manifesto che le Br appartenevano all’album di famiglia del Pci: un album che forse sta tetramente per riaprirsi ora con nuovi adepti, dato che l’attuale sinistra, nelle sue componenti più estreme, ma non solo, resta ancora legata ad una certa “suggestione rivoluzionaria”, punto irriducibile delle sua elaborazione teorico-ideologica e della sua proposta politica. È questa la sua odierna “zona grigia”!

Aggiornato il 25 giugno 2024 alle ore 12:35