Al centro dell’astensione: la maschera elettorale

Come è fatta l’astensione (elettorale)? In generale, si tratta di un numero secco, comunicato con grande doglianza quando, a consuntivo, il “Re del dato” accerta che è andato a votare meno del 50 per cento degli elettori aventi diritto. Ora, non solo è vero che una grande democrazia muore quando viene meno il consenso e la fiducia dei suoi cittadini, rispetto all’operato delle élite e dei partiti. Ma rimane un fatto di assoluta rilevanza quando ciò avviene in un mondo globalizzato, dove nessuno è più in grado da solo di cambiare il valore delle variabili di sistema. Tanto più se questo meccanismo globale delle disuguaglianze produce una forbice in progressivo, rapido divaricamento tra poverissimi e ricchissimi della terra, in cui i primi sono miliardi e i secondi solo qualche migliaio. Ora, sarebbe bene che sul corpo collettivo dell’astensionismo di massa si praticassero i debiti tagli e sezioni di muscoli e organi, per capire com’è fatto quel corpo morto. Perché solo l’anatomia di quel dato può aiutare a far comprendere a chi comanda cosa si deve aspettare dal vasto blocco sociale dell’astensionismo. Come farlo chirurgicamente e capillarmente è un gioco da ragazzi, ai tempi dell’Intelligenza artificiale. E sarebbe bene, in tal senso, imitare il metodo (o “esperienza”) cinese del Fengqiao, utilizzato dal Partito comunista per spiare più di un miliardo di persone (schedate per quartiere, isolato e unità immobiliare), estendendolo alle Sezioni elettorali, per scoprire come sono fatti (statisticamente) gli aggregati per età, reddito, residenza e sesso di chi non ha votato.

E sarebbe molto interessante farlo nella patria del De bello gallico, in cui un Cesare-Obelix ha deciso di sfidare la sorte giocando “a matto doppio matto”. E dove lo si dovrebbe calare, in particolare, il metodo Fengqiao dell’astensionismo per capire che aria tirerà in Francia dopo il 7 di luglio? Semplice: nelle periferie degradate, nelle banlieue presidiate dalle legioni neo-identitarie ed etniche di milioni di giovani immigrati di terza generazione, sicuramente cittadini francesi, che hanno anche di recente messo a ferro e fuoco i loro quartieri per protestare contro “il regime” e il suo presidente. Di certo, loro e le relative famiglie non voteranno a fine giugno per i centristi di Emmanuel Macron, rimanendo a casa in occasione del voto. E, soprattutto, il metodo Fengqiao dovrebbe andarsene in giro per la sterminata campagna francese, in cui si ripropone l’eterno conflitto con la città (la Parigi pigliatutto, in questo caso): la stessa contrapposizione che ha portato alla vittoria dei separatisti Brexiters e che, dall’altra parte del continente, tiene in vita con il sangue dei propri figli il regime putiniano e la sua guerra in Ucraina. Se si vuole capire la malattia della democrazia, bisogna arrivare fin là, a interrogare quei milioni che non si sentono più rappresentati da nessuno e che hanno capito e provato gli effetti sulla propria pelle del gioco al massacro sociale.

Quelli, in buona sostanza, che si sono sentiti defraudati, espropriati e umiliati da un’immigrazione selvaggia, che ha contribuito a creare quel clima sempre più percepito (a causa dei numeri in rapida crescita) di “sostituzione etnica”. La politica deve cominciare a capire (e il voto europeo di Francia, Germania e Austria in qualche modo lo ha suggerito) che non si possono creare surrettiziamente eserciti di nuovi schiavi di importazione, grazie a una marea di overstayer, ovvero di extracomunitari provenienti da Paesi “sicuri”, che hanno un fittizio permesso temporaneo di soggiorno per studio/turismo scaduto e non rinnovato, per cui risiedono irregolarmente sul territorio nazionale. Tutti costoro, assieme ai migranti dei “barconi” spediti in Europa dai trafficanti che giocano con la Convenzione di Ginevra, come un passe-partout per forzare l’ingresso di non aventi diritto e dei profughi economici, costituiscono una forza lavoro a salario molto basso e in nero. Quest’ultima, per di più, restando per molto tempo irregolare e senza contratto di lavoro, sottrae enormi risorse alla fiscalità dei Paesi di residenza, impoverendone progressivamente e drasticamente nel tempo i margini di welfare. Per non parlare, poi, dell’assurda, devastante seconda gentrificazione delle città d’arte e di quelle a maggiore attrazione turistica, dovuta alla rapidissima espansione delle unità immobiliari adibite a b&b e al dilagare dello street food.

E questa nuova economia è sostenuta e alimentata proprio dall’immigrazione selvaggia che nessuno ha intenzione di controllare, visto che quelli che vanno a votare ne traggono notevoli benefici per le loro attività commerciali e lavorative. Bisognerebbe che qualcuno raccogliesse davvero, formulando proposte concrete alternative, il grido di dolore di quelle centinaia di milioni di persone che si vedono vittime predestinate del nuovo totalitarismo “green”, fondato essenzialmente su un mare di menzogne e di interessi economici planetari, per cui entreranno in gioco nei prossimi venti anni centinaia di trilioni (un trilione ovvero mille miliardi) di euro/dollari. Risorse queste ultime su cui la Cina ha già messo gli occhi, accaparrandosi i maggiori giacimenti al mondo di terre rare e facendo un clamoroso dumping con la vendita all’estero di tecnologia green, come batterie solari e macchine elettriche. Se i totalitarismi green non avessero commesso l’errore fatale di demonizzare il nucleare (per definizione un’energia “pulita”), oggi non saremmo ancora schiavi delle energie fossili e del ricatto cinese. Ora, invece di piangere sull’avanzata della “marea nera” delle ultradestre in Europa e Usa, perché la politica non si adopera, soprattutto nella sede della macchina burocratica di Bruxelles, a mettere in atto politiche di rientro dalle delocalizzazioni produttive verso l’Asia, e di porre un freno severo alle migrazioni incontrollate, rilanciando tutte le produzioni ad alta densità di mano d’opera, debitamente depurate dalle loro componenti più inquinanti?

Si può fare riarmo importando acciaio dai colossi cinesi e indiani? Con quale autonomia, in questo caso? E perché non si rilanciano le grandi infrastrutture di trasporto collettivo, come l’Alta velocità, di potenziamento delle infrastrutture portuali, e così via, in grado di generare milioni di nuovi posti di lavoro? E come mai, visto che il nostro continente di prossimità è l’Africa, con le sue immensi risorse e la sua crescita demografica impetuosa, non siano stati sinora in grado di rilanciare, moltiplicandola per dieci, l’offerta cinese della Belt and Road initiative, facendone un cavallo di battaglia e un moltiplicatore intercontinentale di sviluppo per le imprese europee e africane? Le destre vincitrici hanno per caso in mente una simile strategia globale, in risposta alla spinta antioccidentale del Global South? L’Occidente si salverà solo e soltanto se deciderà con tutta la forza della sua creatività e intelligenza di sbarazzarsi una volta per tutte dei totalitarismi del “green” e del “wokism” del politicamente corretto. Vladimir Putin, o non Vladimir Putin. Altrimenti, vinceranno lui, Xi Jinping e Narendra Modi. Questa è la sfida che non ha niente a che vedere né con il fascismo, né con il nazismo!

Aggiornato il 14 giugno 2024 alle ore 11:00