La Democrazia del “non voto”

Al termine di ogni elezione inizia uno stucchevole dibattito intorno ai dati dell’affluenza alle urne. Da un lato ci sono quelli che hanno riscontrato una percentuale di voti superiore a quelle precedenti che si affrettano a dire che hanno stravinto nel timore che qualcuno ne metta in discussione il risultato e dall’altro ci sono quelli che avendo preso una batosta in termini di eletti si scatenano, nel tentativo di delegittimare l’avversario, contro gli astenuti, rei a dir loro, di aver fatto primeggiare l’altra parte ed avere dato un segnale di disaffezione a quella che loro ritengono democrazia.

Di fatto hanno torto tutte e due le parti. È solo un esercizio retorico per spostare l’attenzione dei sempre meno interessati spettatori dalle vere questioni, sapendo che il loro posto è comunque salvo.

Fortunatamente il sistema istituzionale, economico e sociale funziona a prescindere essendo fondato, grazie a chi l’ha pensato e realizzato nell’arco di secoli, sulla stabilità della legge e non sulla precarietà delle maggioranze politiche che si alternano. Di fatto è quello che avviene nell’Unione Europea, dove gli stati sono costretti, a prescindere dai governi eletti democraticamente, a osservare regole ed accordi che nel tempo hanno controfirmato e poi ratificato nei rispettivi Parlamenti.

Ed è anche per questo che nelle grandi democrazie dell’Occidente le persone spesso rinunciano ad esprimersi attraverso le elezioni. E quello che per alcuni è un allarme democratico, per la presunta perdita di fiducia nelle istituzioni invece, si rivela essere un atto di credito proprio verso le stesse, perché i cittadini ritengono, molto probabilmente inconsciamente, che la loro partecipazione al rito elettorale in fin dei conti fa mutare di poco la loro vita, che viene percepita come indipendente dal risultato finale della bagarre politica del momento. 

In questo si riscontra una certa maturità, è un atto di superiore fiducia in quelle tradizioni, politiche e sociali, che nel tempo sono diventate istituzioni: il Re nelle monarchie costituzionali, il Presidente nelle repubbliche e in tutte e due il Parlamento.

Più in generale vediamo un attaccamento, che si è manifestato più volte in Italia, alla Costituzione nella sua interezza, forse perché pone limiti concreti al potere di ogni governo. In tutte le democrazie liberali avanzate alle urne si recano sempre meno persone a differenza invece dei sistemi autoritari o totalitari, in cui la pressione dell’autorità politica si manifesta pesantemente.

Alle elezioni presidenziali in Russia del 15-17 marzo 2024 si è registrata un’affluenza del 77,49 per cento con un incremento del 9,95 per cento rispetto alle precedenti, di contro in quelle negli Usa del 2020 solo del 66,6 per cento e in quelle del 2016 in cui fu eletto Donald Trump si scende al 55,7 per cento. Peraltro, Vladimir Putin ha ottenuto 87,28 per cento dei voti validi a differenza di Joe Biden che nel 2020 ha avuto il 51,31 per cento e Donald Trump nel 2016 il 46,1 per cento e Ronald Reagan, uno dei più popolari presidenti americani, nel 1980 raccolse solo il 50,75 per cento con una affluenza del 52,6 per cento e quando fu eletto Bill Clinton, icona della sinistra mondiale, andarono alle urne solo il 49,0 per cento degli statunitensi.

Se ne deduce allora che nella più avanzata democrazia del mondo c’è un rischio di perdita di fiducia nella Costituzione? Assolutamente no.

Più semplicemente e meno prosaicamente, il sistema istituzionale liberaldemocratico è più forte delle persone che temporaneamente lo guidano, perché governa la legge non gli uomini. Essi la applicano e in qualche caso l’aggiornano.

Come dice Tommaso Romano in La Tradizione regale. Singolarità fra Autorità e Libertà, Fondazione Thule Cultura (2021) la “corona va oltre la persona che la porta” e questo vale per tutte le istituzioni, anche quelle repubblicane, che nel tempo si sono stratificate e affermate.

La retorica del “dovere del voto” è necessaria in quelle nazioni, come la Russia, dove la legittimità del potere non passa da un voto del Parlamento, da un’incoronazione sacrale o da altre procedure costituzionali, ma da un plebiscito che si rinnova nel giorno delle elezioni generali.

Fortunatamente, per esempio, in Italia non funziona così, anzi avviene l’esatto opposto: solo un voto del Parlamento legittima un governo incaricato dal Presidente della Repubblica. E la vera sovranità, che appartiene al popolo, è quella della legge e non quella delle persone e lo stesso capo dello stato ad essa è sottoposto. Così nessuno può avere le mani libere per imporre, senza dibattimento anche aspro, che le promesse della campagna elettorale, spesso per loro stessa natura irrealizzabili e persino pericolose, divengano provvedimenti reali.

Peraltro, dietro la formula del bicameralismo perfetto si cela l’idea che la deliberazione del legislatore sia ponderata, per questo lenta, e consapevole. La conoscenza non è centralizzata in un nessun organo monocratico o oligocratico, ma al contrario è diffusa: più ampia è la rappresentanza parlamentare più grande è la possibilità di trovare soluzioni via via più adeguate ai problemi complessi della realtà ché ché ne pensino i teorici della riduzione del numero dei deputati.

Poi ci sono i momenti in cui l’elettorato percepisce che c’è in gioco qualcosa di veramente importante, come la Libertà, e corre alle urne per tutelarla.

Fu il caso delle elezioni politiche del 1948 in Italia, quando il rischio concreto di finire sotto il tallone dell’Unione Sovietica di Stalin attraverso il Fronte Democratico Popolare costituito dal Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti e il Partito Socialista di Pietro Nenni portò alle urne il 92,19 per cento degli aventi diritto, determinando il trionfo delle forze cattoliche con la Democrazia Cristiana, liberali con il Blocco Nazionale, monarchiche con il Partito Nazionale Monarchico, nazionaliste con il Movimento Sociale Italiano, e più in generale di quelle moderate anticomuniste.

Per la maggioranza silenziosa, la Terza Italia, solo di fronte ad un pericolo autentico ha senso andare a votare in massa, e solo se percepisce una debolezza del sistema istituzionale. In questo caso sceglie i più colti, i più intraprendenti, i più geniali che escono dall’anonimato dei loro affari privati perché comprendono che non possono più stare alla finestra a godersi lo spettacolo di fronte ad un probabile disastro che rischia di travolgere tutto.

Sono personalità indipendenti, schiette e libere che in tempi ordinari non trovano spazio nelle file dei partiti, dove la singolarità viene mortificata in nome delle logiche di potere interne in cui la pratica comune è l’ossequio al capo di turno.

Ma a prescindere dalla straordinarietà di figure che emergono nei momenti topici della storia come Cavour o Churchill, in tempo di pace così come in quello di guerra, bisogna avere ben presente il valore delle istituzioni nazionali ed internazionali, come Italia unita e l’Unione Europea, che sono garanzia di sicurezza, prosperità e libertà e proprio per vanno salvaguardate dalla delegittimazione, da qualsiasi latitudine politica arrivi, di demagoghi capaci di tutto per tornaconto personale.

Aggiornato il 13 giugno 2024 alle ore 13:37