C’era una famosa e scanzonata brigata di giovani rampolli milanesi che, tra il 1816 e il 1821, portò a segno numerose bravate antiaustriache. La richiamiamo in quanto ricorda un’altra compagnia, non certo allegra, ma disponibile a pericolosissime iniziative belliche: Joe Biden, Emmanuel Macron, Josep Borrell e Jens Stoltenberg (nella foto) sono mosche nocchiere per presunte leadership, uomini di pace e di buona volontà che si dicono pronti a difendere le proprie convinzioni fino all’estremo sacrificio. Fervore democratico? Moderni kamikaze? Spiritualità missionaria? No! Certamente no, non sono questi gli spessori umani, politici, culturali, esistenziali che attengono agli uomini della Compagnia. Del resto, ognuno è afflitto da particolari contingenze: Biden, da tempo sul sentiero crepuscolare, con le elezioni del prossimo novembre affronta la sua ultima chance. A Macron, l’ultimo sondaggio assegna un modesto 15,5 per cento, che oltre a essere un pessimo risultato per le Europee, mina pesantemente le sue aspettative per le presidenziali del 2027 e ancor più per il ridimensionamento dell’ambita posizione di presidente della Commissione europea che vorrebbe ricoprire nella prossima legislatura, a partire dal 2029, che pur vedrà un accentuato declino della Ue.
Quanto a Stoltenberg e Borrell, in comune hanno ricoperto un ruolo del tutto fallimentare, in alcuni tratti perfino indecente. Il secondo è un professionista di banalità e inconcludenza: ricordiamo le scempiaggini sul ritiro degli occidentali dall’Afghanistan e, a mo’ di ciliegina sulla torta, la nomina di Luigi Di Maio a inviato speciale dell’Unione europea nel Golfo. Irrilevante personaggio, considerando la non conoscenza neppure della storia francese, sponsorizzato dallo statista Mario Draghi, in virtù dei servigi offerti a conclusione della sua legislatura. A parte il danno d’immagine al pari di Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza (Sic) – circa 30mila euro di stipendio – il neo diplomatico italiano incide sull’istituzione di Bruxelles solo per il sostanzioso emolumento mensile e relativi benefit. Di sicuro, un europeista convinto.
Più complessa la figura dello stratega Nato, dove opera dal 2014, in proroga dal 2022 causa invasione Ucraina verso la quale si è speso in un convinto apostolato a volte confinante con un ingenuo fanatismo. Nel secondo mandato il solerte funzionario ha caratterizzato il suo operato con l’assunzione di posizioni così altalenanti e discostanti tali da procurare preoccupazione e ilarità. Le dichiarazioni, ad esempio, a proposito della Russia e di Vladimir Putin, da noi più volte documentate in libri e news, hanno rasentato un incombente stato schizofrenico. Un falso allarme, il disciplinato segretario generale oscillava nelle dichiarazioni quale risultato di precedenti oscillazioni del Dipartimento di Stato, del Pentagono e della Casa Bianca. Insomma, un signor sì, affatto autonomo, esattamente come in queste ore dove per primo ha posto la necessità di eliminare le restrizioni sull’utilizzo offensivo degli armamenti alleati verso il territorio russo. Un’estemporaneità? No, di certo. La solita esplorativa mosca cocchiera per compattare gli alleati dell’Alleanza. Al di là dei personaggi, ora, spingiamo il ragionamento dove è da spingere, il pensiero su ciò che è da pensarsi.
L’ora sfugge, le leggi della storia si addensano sui cieli dell’Europa, la pochezza dei leader occidentali, maestri di tatticismo politico ma assolutamente digiuni di valutazioni strategiche militari, sparge irreali e presuntuosi racconti pregni di contraddizioni. Pensiamo allo sbandierato pericolo per altre terre europee che in caso di sconfitta ucraina verrebbero occupate dalla Russia. Questa convinzione, allora, dovrebbe indurre tutti i Paesi Nato a supportare Kiev con ogni mezzo, anche con risorse umane, considerato che i difensori ucraini vanno man mano assottigliandosi. Ma così non è, per l’Italia. Mai un suo soldato in terra ucraina, due anni di roboanti proclami e solenni promesse riportano all’Italietta giolittiana, o più correttamente, a quella di sempre. Il racconto che circola in Europa è di estrema semplicità: un Paese aggredito va difeso. Sconfitto l’aggressore, per noi europei si aprirà un’era di pace. Questa è l’utopia che gironzola in un Occidente che non esplica alcuna valutazione dell’altro e dei suoi alleati. Noi sosteniamo che uno spettro si aggira per l’Europa e non è l’arciconosciuto del 1848 bensì un’effettuale distopia non avvertita da larghissimi strati della popolazione ma fonte di sotterranea angoscia. E sì, l’informazione nel suo complesso ha il ruolo del pompiere, sostituendo il liquido con il narcotico di una artificiale complessità che innesta un rassicurante sopore collettivo.
Lo scenario generale resta sempre sullo sfondo, il primo piano e le inquadrature zoomate sono riservate alla dialettica della politica domestica, ai duri scontri – incontri di scarso interesse, interpretati da personaggi che, in larga parte, poco sanno, poco decifrano, quasi niente decodificano e raramente risultano comprensibili. Ma cosa ci sarebbe effettivamente da intendere? Intanto, che questo conflitto, tra i più inutili, era inevitabile, che agli osservatori distratti appare incomprensibile come non si riesca a porne fine quando l’intero pianeta, in parte solo apparentemente, lo richiede. È fisiologico che i conflitti si avviino a una conclusione possibilmente celere, a meno che non siano durati cent’anni, trattandosi di due delle super potenze dell’epoca scontratesi per l’egemonia territoriale e la loro stessa identità. O trent’anni, sicuramente in origine per motivi religiosi, poi una guerra civile e uno scontro continentale tra grandi potenze conclusosi di fatto senza vincitori e con 12 milioni di caduti. La crisi ucraina, no! Perché è uno scontro, solo in apparenza, limitato a un’area dell’Europa orientale, solo in apparenza limitata a due contendenti e sempre fittiziamente investe solo la libertà e l’indipendenza ucraina. Di fatto, a questo punto, è un conflitto indirizzato al ridimensionamento politico militare della Russia anche in previsione delle tensioni prossime future sullo scacchiere del Sud Est asiatico. È un conflitto nato con venature di contrapposizione ideologiche, culturali, di visioni di un mondo che semi mondiale si avvia a essere sempre più multipolare ma che ha crescenti difficoltà nell’adoperarsi per una planetaria mutua coesistenza. È un conflitto ben visto dai circoli democratici statunitensi, auspicato dalla cupola di Davos e dai propulsori del mondialismo che, dopo la battuta d’arresto della globalizzazione, seguitano a influire per un mondo postmoderno al di là della modernità, un universo senza frontiere, senza passato né tradizione, un’umanità senza rapporti particolarmente affettivi, con famiglie, pratiche sessuali e religiosità improntati alla liberazione dal trascorso, da visioni, riti e credenze caratterizzanti il vissuto dell’umanità.
Una neo cultura, insomma, contemplata dal transumanesimo e postumanesimo che, in questi tempi trova nella pratica della Cancel culture una pressante militanza. Già sul versante del tramonto, invece, l’approccio Woke e l’affezione per il cambiamento climatico. La rincorsa al postmoderno, evidentemente, non tiene il passo con la modernità. L’intellighenzia di Davos e la neo-cultura palesemente, richiamando Platone, evidenziano una pesante scissione tra essere e apparire, semplificando non per l’umanità ma contro di essa. Naturalmente la Nato, l’Ue e la stessa Onu hanno, a vario titolo, contribuito al prolungarsi del conflitto; tralasciando l’ultima del tutto incapace nel tener fede alla sua originaria missione, non si occupa più di coesistenza ma di diritti il più delle volte patrocinati dalle varie fondazioni di George Soros e Bill Gates. Le stesse divenute tra i maggiori contribuenti dell’Oms che, pur restando Agenzia dell’Onu sostenuta anche da contributi nazionali, si è trasformata in un partenariato privato-pubblico.
Seguire cammino e prospettive è stato utile per comprendere trend e obiettivi e l’Onu, la prima delle tre, ha confermato i nostri ragionamenti. La Nato e l’Unione europea, con l’invasione russa, hanno avuto un sussulto rigenerante con l’effetto di originare racconti discutibili per il loro ottimismo. La Ue, senza corposità né politica né militare, ha creduto di svolgere un ruolo cardine nell’ambito della crisi affidando la sua immagine a un vasto turbinio d’incontri diplomatici utili a esaltare le figure politiche nazionali più che a produrre risultati per l’avvio di processi di pace. Gli europeisti non hanno compreso che la struttura Nato ha del tutto surclassato il sogno di realizzare un esercito europeo, a meno che per esso non si intenda la nascita di un contingente di pronto intervento composto da qualche migliaio di unità, di cui tanto si è parlato in questi giorni. La Nato dopo la ritirata da Kabul, di fatto, non aveva più ragion d’essere, intuizione smentita dal suo ruolo di coordinamento intergovernativo e di formazione interforze sul territorio ucraino.
L’ultimo dei fallimenti dell’Unione europea in questo comparto ha significato una mina vagante per il suo prossimo futuro. Per chi vuol vederlo si va delineando una profonda divergenza tra una decina di nazioni, quelle baltiche, scandinave e Polonia e le restanti. Le prime guardano, ormai, con interesse, avviando particolari relazioni, a Usa e Gran Bretagna. Se si aggiungono anche le tre del gruppo Visegrad: Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, spesso in contrasto con Bruxelles, si comprende che, chiuso il capitolo Kiev, a parte tutte le altre criticità, si apriranno ragionamenti sul futuro non roseo dell’Ue. Naturalmente la vita della Nato dipenderà dalla prossima Amministrazione americana e dall’inquilino della Casa Bianca. Se i democratici la conserveranno, considerati i precedenti, crediamo che vivrà nuova vita dove molti dei componenti dell’Europa continentale saranno subalterni all’incremento degli interessi americani nell’indo-pacifico. Del resto, nel summit di Madrid nel giugno del 2022, il grillo parlante Stoltenberg delineò che l’Alleanza nel prossimo futuro dovrà attrezzarsi per una trasformazione in grado di guardare anche al teatro del Sud Est asiatico. Naturalmente, questo è passato nel più assoluto disinteresse nell’informazione occidentale.
Che la Nato si trasformi da Alleanza difensiva a supporto Usa in Asia non è un dato d’interesse. Del resto, se cade in un vuoto intellettuale ancor più morale, di responsabilità qual è il circo politico, informativo e culturale di questo Paese non c’è da meravigliarsi. Ritornando al conflitto, ci sembrano chiare le ragioni di una non pace che non interessa neppure al suo presidente. Crede che dovrà vincere e vincerà, il piccolo Duce che ormai guida un Paese semidistrutto con centinaia di migliaia di caduti. L’informazione non informa che in Ucraina vi è un largo idem sentire che ritiene pericoloso continuare il conflitto ma non è agevole manifestarlo. Si aggirano pattuglie con il compito di rintracciare uomini da avviare alle armi. E l’Europa invia armi per chi? Per cosa? Perché? A parte i racconti che ci raccontiamo, i popoli non lo sapranno mai.
Una guerra persa, malgrado la biennale enfasi, la si vuole ribaltare intensificandola, allargandola, insanguinandola ancor più, la parola d’ordine è: la Russia deve essere sconfitta, d’altronde, fu questa la precisa indicazione ancor prima dell’inizio del conflitto, del filantropo mondialista George Soros, finanziatore e burattinaio di una buona fetta della politica occidentale. Ancora, questa, una riprova dell’impoverimento strategico e della crisi complessiva di un decadente pensiero occidentale. Per dirla in senso figurato, ai politici polli di Renzo, molto occupati a scimmiottare il nulla, poco importa se l’Europa è avviata verso un conflitto dagli imprevedibili esiti. Poco importa ai mondialisti del disastro certo in ambedue le soluzioni finali. Una prevalenza russa? Un’Ucraina smembrata e il resto d’Europa da un insignificante futuro. Prevalenza alleata? Un disordine mondiale che crei sconquasso nell’Eurasia? Spessa instabilità in Estremo Oriente, causa inasprimento cinese su Taiwan? Un continente in crisi per il suo futuro, per la sua politica, e anche per la sua religione? Questo per segnalare la mancanza di un ulteriore pilastro della costruzione occidentale.
Il disfacimento della Chiesa di Roma, del Vaticano suo braccio politico, ma anche delle altre confessioni cristiane, hanno oscurato sacralità, liturgia e lo stesso rapporto con la trascendenza riducendo la frequenza a un convivio sociale ed esaltando il vuoto contenutistico delle partecipazioni organizzate con retoriche spettacolari teatralità. Insomma, un’Europa da ripensare, un’altra Europa che non prospetti felicità, perché non è dell’azione politica, ma che si adoperi almeno per la tranquillità delle genti iniziando dal contrasto alle tante imperversanti Compagnie della Teppa. Il nostro rispetto per l’Europa, inteso come territorio, cultura, storia, tradizione e popoli, non certamente per la Compagnia europeista di Bruxelles con l’errata concezione del proprio instrumentum regni, ci induce a segnalare un errore di superbia e di ottimismo degli europeisti portati a sopravvalutare peso, condizione e prospettive dell’Unione. In qualche occasione si è caduti in una sorta di razzismo strisciante da parte di chi, per eccesso di una distorta vis politica, si è spinto a magnificare e illuminare connotazione e traguardi futuri del continente a dispetto di altre terre e altre genti. Occorre fare ancora un lungo ragionamento sull’Europa, sulla sua indipendenza, sulla conservazione, sul suo territorio di ordigni nucleari non propri, sul tramonto dell’Unione. Il nostro concreto liberalismo ci consente responsabilmente di spaziare senza vincoli né pregiudizi ma questa è un’altra storia da vivere, augurandoci che la Compagnia della Teppa ci risparmi l’Apocalisse.
(*) Direttore Società Libera
Aggiornato il 06 giugno 2024 alle ore 09:45