La storia del pensiero liberale è ricca di esempi interessanti di come si possa felicemente coniugare l’azione politica con una civile testimonianza culturale. Da Alexis de Tocqueville a Benjamin Constant, da John Stuart Mill fino a Benedetto Croce e Karl Popper tutti i grandi intellettuali e pensatori liberali tra il XIX e il XX secolo hanno dimostrato di considerare politicamente decisivo il lavoro delle idee e della cultura per difendere e promuovere la propria concezione della società umana. In Italia, tuttavia, già a metà del secolo scorso Mario Pannunzio si chiedeva come mai tante diverse correnti d’ispirazione liberale e democratica – fedeli a una tradizione di grande nobiltà intellettuale che poteva annoverare tra i propri maestri Camillo Benso di Cavour, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Guido De Ruggiero, Giovanni Amendola e, tra i liberalsocialisti, personalità come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Guido Calogero – abbiano trovato così poca udienza nel nostro Paese. Ancora nel Secondo dopoguerra, secondo Pannunzio, questo fenomeno poteva dipendere dalla pressione di enormi masse che votavano per i cattolici o per i comunisti, e talora perfino per i monarchici o i fascisti. Su un elettorato di una trentina di milioni di cittadini, ventidue milioni di voti andavano infatti a partiti che erano espressione di subculture tanto ben radicate nella storia italiana quanto estranee ai Paesi occidentali più progrediti. Ciò nonostante, sebbene questi fossero già allora i rapporti di forza tra i partiti d’ispirazione liberale e i partiti di massa, fino alla fine degli anni Ottanta i liberali, nelle loro varie declinazioni, non avevano mai smesso di attribuire la giusta importanza al lavoro culturale nelle università e nell’editoria, e più in generale alla difesa di quei valori liberaldemocratici che avevano ispirato gran parte della nostra Carta costituzionale.
Una spiegazione efficace del loro successivo defilarsi da questo terreno di confronto culturale potrebbe essere quella individuata da Norberto Bobbio, secondo il quale una sorta di progressiva deresponsabilizzazione dell’individuo ha contribuito a rendere sempre più debole e incerta la loro battaglia. Fra tanti processi degenerativi preoccupanti la deresponsabilizzazione dell’individuo, ormai diventato uomo-massa, ha finito col renderlo progressivamente incapace di sostenere le proprie ragioni in modo argomentato. Quest’uomo massa deresponsabilizzato “non parla ma grida, non discorre ma inveisce, non ragiona ma esprime il proprio pensiero nello stile primitivo dello slogan, non agisce ma si agita, e fa gesti ritmici con il braccio teso, che – meraviglia dell’immagine trasmessa con rapidità fulminea da Paese a Paese – appaiono a noi attoniti, nonostante la varietà dei costumi, dei regimi e delle civiltà, eguali, perfettamente eguali in tutto il mondo. L’etica di gruppo prevale sull’etica individuale: intendo l’etica secondo cui la mia azione è imputabile al gruppo di cui faccio parte e solo il gruppo, quindi, qualunque azione compia, anche la più efferata, e che io personalmente non condivido, ne è il responsabile”.
Da qui il passaggio al difficile rapporto tra intellettuali e masse è breve, tanto che possono risultare due termini incompatibili: “Esiste l’uomo-massa, la massa anonima, amorfa, spersonalizzata, sempre più moralmente e politicamente degradata, delle grandi città, l’edilizia di massa, che ha reso tutte le città del mondo uguali. Non esiste, non può esistere, l’uomo di cultura di massa. O se esiste, e purtroppo esiste, nessuno di noi sarebbe disposto ad additarlo ad esempio. Il dire che non esiste, e non può esistere, l’intellettuale-massa, significa che per nessun altro vale il principio della responsabilità, intendo della responsabilità individuale, quanto per chi si assume il compito ingrato, difficile ed esposto continuamente al rischio dell’incomprensione o del fallimento, di esercitare la propria intelligenza per muovere e smuovere l’intelligenza altrui”.
Quanto Bobbio mette in luce con la consueta chiarezza ha però un valore generale, che concerne tutte le società occidentali, e non riguarda unicamente il nostro Paese. Da noi, almeno dopo il crollo del muro di Berlino, il ruolo che i liberali, nelle loro varie declinazioni, hanno attribuito alla cultura e alla battaglia culturale è invece progressivamente scemato, e probabilmente in proporzioni maggiori di quanto avvenuto nel resto del mondo occidentale. Per analizzare questo progressivo disimpegno dei liberali in ambito culturale rispetto, per esempio, alle forze politiche d’ispirazione marxista, si potrebbe menzionare il caso esemplare costituito da Radio 3, che è probabilmente, almeno sotto questo profilo, ancora l’espressione migliore di tutto il sistema radiotelevisivo italiano. Da quando esiste, cioè dal primo ottobre 1950, Radio 3 informa e forma i cittadini, li aiuta a pensare e a imparare ad ascoltare la buona musica, classica, jazz o d’altro genere, ad amare l’opera, a scoprire bei libri, a leggere i giornali e a commentarne gli articoli con senso critico, a visitare luoghi con l’immaginazione e più di recente anche a rivedere dei bei film attraverso i loro dialoghi. Da oltre mezzo secolo questa radio svolge un prezioso lavoro di promozione e divulgazione culturale, pur non essendo affatto imparziale. L’orientamento politico che ne ispira i programmi e i loro conduttori è infatti spesso riconducibile in senso lato ai valori di una variegata sinistra d’ispirazione marxista più o meno aggiornati alle battaglie politiche del momento. Persino le telefonate che arrivano durante l’ottima rassegna stampa mattutina, che ospita giornalisti di tutte le tendenze e fazioni, sembrano talvolta prevalentemente selezionate tra una certa sinistra, sebbene questa circostanza possa semplicemente dipendere dal fatto che mediamente questo è l’orientamento dei suoi ascoltatori.
Insomma, Radio 3 sembra una radio politicamente schierata in modo abbastanza chiaro, e tuttavia questo non solo non le impedisce di offrire un vero servizio pubblico, ma le consente anzi di provare a colmare delle vistose lacune lasciate colpevolmente aperte dal nostro sistema scolastico, come per esempio un’adeguata formazione all’ascolto della musica classica. Insomma, essa costituisce un valido esempio di come si possa realizzare un ottimo servizio pubblico e una meritoria opera culturale e svolgere nel contempo un’azione politica coerente con i propri valori e con il tentativo di una parte politica del Paese di conseguire quell’egemonia culturale che in effetti detiene fin dagli inizi dell’età repubblicana. Nel nostro Paese una simile egemonia culturale non è stata invece mai uno degli obiettivi della variegata area liberale e questa è stata progressivamente sempre meno attiva e presente anche nelle nostre università. Durante la Prima Repubblica nelle nostre accademie era in vigore una sorta di quel manuale Cencelli notoriamente in vigore presso la Rai. In base a questa spontanea imitazione di tale manuale (ma sarebbe forse più corretto ipotizzare il contrario) c’era una spartizione delle cattedre tra tre principali correnti: quella comunista, di gran lunga la più potente e influente, quella cattolica e quella d’area liberale o socialista, forse la meno rappresentata e tuttavia assai vivace.
Se il disegno gramsciano di conseguire un’egemonia culturale nel Paese poteva così trovare un’adeguata espressione nelle nostre accademie, anche cattolici, liberali e socialisti erano comunque in grado di far valere le loro ragioni e generazioni di giovani e validi studiosi furono formati da docenti di aree culturali molto diverse. Una simile varietà pare invece assai ridotta dopo il crollo del muro di Berlino, quando i “liberali”, o almeno la maggior parte tra coloro che si ritenevano tali, hanno esternato pubblicamente il loro convincimento che “con la cultura non si mangia”, essendo persuasi che la battaglia con il marxismo-leninismo, o anche più semplicemente quella con il catto-comunismo nostrano, fosse ormai vinta e non richiedesse ulteriori sforzi.
Così si è potuto assistere al curioso fenomeno – o almeno che risulterebbe curioso dal punto di vista di un liberale del XIX secolo, o anche da quello di un liberale crociano, o einaudiano, o popperiano – che una società possa ritenersi in grado di sviluppare la consapevolezza dei valori su cui si fonda senza difenderli e promuoverli attraverso un’incessante azione di formazione dei suoi cittadini, come se tali valori fossero in grado di difendersi e promuoversi da soli, magari in virtù dell’inerzia di un sistema economico capace di produrre un certo diffuso benessere. In pratica, si è progressivamente imposta la convinzione che per difendere e promuovere i valori liberaldemocratici fosse sufficiente fare un po’ di soldi, o possederne comunque da spendere, e che tutto il resto sarebbe andato a posto da solo, e non solo a casa nostra, ma persino su scala globale. In questa prospettiva, un editore munito di diverse testate giornalistiche e di ben tre televisioni non ha mai avuto l’idea e di certo il gusto di dar vita a una radio che fosse in grado, per esempio, di svolgere un ruolo analogo a quello di Radio 3: una radio che svolgesse cioè un vero lavoro culturale da un punto di vista liberale, cosicché i cittadini, anche quando alla guida di un’auto o in treno, potessero ascoltarla in alternativa alla meritoria radio della Rai, ascoltando opinioni e tesi diversamente assortite rispetto a quella. E non solo quest’idea non fu realizzata da Silvio Berlusconi, ma nemmeno da qualsiasi altra forza politica liberale, fatta eccezione, almeno per quanto riguarda l’ambito politico, per la storica e gloriosa Radio Radicale, che svolge da molto tempo un ampio e meritorio servizio pubblico, sebbene non di carattere specificatamente culturale.
Il risultato del disimpegno dei liberali nella Kulturkampf che costituisce da sempre un tratto fondamentale della loro vocazione politica non si limita ovviamente alla mancata creazione di una radio simile, ma questo è un esempio significativo che può fornire un’idea concreta delle scelte che hanno favorito nel nostro Paese l’egemonia culturale di coloro che vedono, oggi ancor più di ieri, nei valori della liberaldemocrazia il loro principale avversario politico. E se le strade e le piazze italiane sono da decenni – e cioè almeno dal 1968 in poi, e anche in questi giorni – spesso piene di manifestanti che tentano di scardinare o indebolire l’impianto valoriale e istituzionale della democrazia liberale in cui hanno avuto il privilegio di crescere e vivere, dovunque si trovi nel mondo, lo si deve in buona parte proprio all’abdicazione da parte della variegata schiera dei liberali nostrani di una delle principali prerogative della loro storia culturale e politica. Quando, infatti, non si crede più nell’efficacia del confronto dialogico, dell’argomentazione razionale, della battaglia culturale intesa come un momento chiave della stessa convivenza democratica, quando non si avverte l’esigenza profonda di formare ogni popolo che aspiri a vivere in democrazia a questo esercizio, quando si ritiene di poter bypassare questo momento procedendo a colpi di slogan come qualsiasi società di marketing, vuol dire che si è rinunciato a un fondamento dell’idea liberale di democrazia e ci si espone a subire l’offensiva di tutti coloro che, in fatto di slogan facili e seducenti – abili cioè nel proporre paragoni ellittici tra società reali e imperfette da un lato e altre idealmente libere e giuste dall’altro – possono vantare una lunga e gloriosa tradizione, ben più agguerrita di quella che è patrimonio delle scuole di pensiero liberaldemocratiche o liberalsocialiste.
Aggiornato il 30 maggio 2024 alle ore 17:17