Se secondo il vangelotto canonico dei marxistoidi, la storia di ogni società è storia di lotte di classi. Graffiando la ruggine delle ideologie per toccare con mano le scivolose complessità psicosociali ed economiche della realtà, con le sue cause d’iniquità e d’immeritocrazia, si ha l’impressione che la storia dei lavoratori sia molto di più. È anzitutto storia di emancipazioni, di sconfitte e di rialzate familiari, collettive; è storia di vite personali che s’incrociano e che abitano il presente, con tanta fame di futuro. È storia di fughe dai lacci, verso l’emancipazione, verso la libertà: anticamera di dignità.
Della storia d’Italia, dall'età dello Statuto albertino ai nostri tempi della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” dobbiamo avere memoria. Sempre. La memora, tuttavia, non dobbiamo cibarla solo attraverso la narrativa storica dall’alto, focalizzata sulle imprese dei big più noti, bensì attraverso il racconto delle vite delle persone in carne, ossa e spirito: all’interno delle varie comunità e categorie di lavoratori (tutte, nessuna esclusa), nonché nei movimenti politici dal basso. La storia dei diritti dei lavoratori, così come la storia dei disoccupati, in Italia e in Europa è ancora tutta da vivere in corsia: senza arretrare, senza tentennare. È una storia aperta al futuro che parte da un passato lontano, ma che di quel lontano passato non può più portare i vessilli ideologici, soprattutto in un momento storico in cui le post-ideologie rosse hanno sciacquato le proprie originarie vertenze popolari in minoritarie pretese distopiche, distanti dalla quotidianità delle sfide economiche e demografiche, estranee alla fatica del mestiere del vivere di ciascuno e dei più.
Di fronte alla crisi delle organizzazioni dei lavoratori subordinati, di fronte alle urgenze delle povertà di tutele delle partite Iva, non occorrono sciamanesimi woke, cancel culture, costose omologazioni greenwashing, scioperi aprioristici dettati dalle antipatie politiche, e tanto altro, ahinoi, che vediamo, sotto il vessillo di un nichilismo new age che si ciba di progressismi senza progresso, il cui unico obiettivo è abiurare ogni forma di conservazione, ma al netto di ogni necessaria innovazione. La politica italo-europea che verrà deve mettere al centro delle proprie agende fattive le vite (anzitutto le vite!) dei grandi, medi o piccoli soggetti, produttori di output materiali e immateriali, economici e spirituali. Una ricetta concreta che valorizzi risorse con l’obiettivo d’impiegarle efficientemente, ciascuna con la propria peculiarità produttiva, senza lasciare indietro chi non si adegua alla società del tutto-tutto-niente-niente.
Il percorso storico dei diritti dei lavoratori, in uno sforzo politico e problematico proteso verso l’attuale condizione neo-costituzionale, personologica, viene testimoniato dalla vita popolare dentro ed oltre le tante crisi che intersezionalmente hanno attraversato le plurime stagioni istituzionali. Occorre progettare in modo critico l’avvenire nazionale in Europa, ma soprattutto – facendoci pionieri italo-europei – occorre puntare sul futuro europeo con soluzioni “italiane” ma non necessariamente “all’italiana” (come è stato fatto fino a non molto tempo fa nel nostro illustre Paese, tenuto ostaggio per mano di partitocrazie dalle sinistre predestinazioni, nonché per mano di gruppi di potere d’anticamera).
Un patriottismo più fiorente è possibile, se ci si apre all’ascolto per poi farsi ascoltare, forti di osservazioni ed esperienze che uniscono attorno al fuoco sacro, con una fiamma liberale radicata sul sudore dei nostri avi, sui sogni dei nostri figli d’Italia e d’Europa, eterogeneamente uniti nella nostra dinamica identità sociale bisognosa d’ascensori economici. Teniamoci stretti al patrimonio morale, quello stesso patrimonio immateriale che non dobbiamo dismettere né dimenticare. Mai arresi alle retoriche di chi professa vane ricette di diritti senza doveri. In modo audace. Mai svenduti sugli altari autocratici di chi vorrebbe obblighi senza diritti.
Su un realistico arrembaggio pragmatico e valoriale, l’Italia deve riscoprirsi patria lavorista d’Europa, e quindi necessariamente riformista: mai corruttibile dall’ideologicamente corretto. Mai schiava e mai schiva delle altre nazioni che si sentono più forti. Per sempre libera, consapevole di poter andare in cattedra, per un’Unione di Stati più democratica e più a immagine e somiglianza dei popoli.
Aggiornato il 28 maggio 2024 alle ore 13:31