Ora che le liste elettorali sono state chiuse, magari potremo nuovamente respirare un po’ di politica. Nei termini dovuti, s’intende. Ergo: quale Europa, quanta Europa, perché l’Europa e cose così, cose cioè un tantino essenziali per comprendere se il nostro futuro ha imboccato la strada giusta oppure, per dirla come Thomas Jefferson, “se la strada dei vivi, alla fine, non potrà mai essere tracciata dalla mano dei morti”. Va da sé che i liberali – quorum ego – tendono a improntare la genesi di ogni ragionamento politico muovendosi lungo un crinale accidentato che separa lo Stato dall’individuo, la pianificazione dallo spontaneismo umano, la regolamentazione dal libero mercato, l’accentramento dei poteri dall’autonomia più o meno differenziata, la burocrazia centralizzata dal sano principio della sussidiarietà orizzontale o verticale che sia, l’uniformità dettata dal Leviatano dalla pluralità ben rappresentata dai corpi intermedi della società. L’Europa, insomma, ci serve o non ci serve? La risposta affermativa è talmente lapalissiana da apparire pressoché ovvia se non proprio banale. Tuttavia, per evitare di gettare il famoso pargolo con l’acqua sporca, è opportuno ricordare che la funzionalità di un organo istituzionale, in questo caso sopranazionale, dipende dal tipo di perimetro che vogliamo disegnare attorno allo stesso ente, con l’obiettivo, appunto, di limitarne i poteri e di ridefinirne le competenze. E quindi: più Europa o un’Europa migliore? Sebbene questi ultimi appaiono come due quesiti pressoché identici, essi nascondono – per la verità in maniera assai malcelata – delle sostanziali differenze sia di ordine teorico che di prassi politica.
Aggiornato il 03 maggio 2024 alle ore 17:27