L’uomo della strada è stanco di sentirsi ripetere dalla mattina alla sera che il blocco della nostra società sarebbe utile a farci fare tutto bene, nel nome della legalità. Che la Pubblica amministrazione italiana inasprisce gli iter burocratici col fine di far rispettare le norme, le tante leggi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una società più triste che seria, in cui si spaccia la povertà come indizio d’onestà.
Poi il popolo si deve anche sorbire paternali istituzionali e pipponi su giornali e tiggì, in cui si sosterrebbe che nei tribunali e nelle Pubbliche amministrazioni c’è una classe dirigente ispirata a quella fonte primigenia che è il Diritto romano. E qui, scusateci ma è obbligatorio, piovono pernacchie, roboanti risate e imprecazioni. Perché il Diritto romano non va scomodato, proprio perché veniva applicato, come ci ricorda Orazio nella sentenza delle Satire, col parametro est modus in rebus: c’è una misura in tutte le cose. Un concetto che la società latina mutuava dall’Etica Nicomachea aristotelica, in cui la mediocrità non aveva il senso dispregiativo oggi diffuso.
Orazio, e prima di lui Aristotele (μέσον τε καὶ ἄριστον), utilizza l’espressione aurea mediocritas per ispirare “ottimale moderazione” nella classe dirigente, compenetrazione nell’esistenza umana e nei suoi valori. Ovvero il “giusto mezzo” nel giudicare e nell’amministrare. È più facile che il rigorismo infarcito di malagiustizia dei nostri giorni possa trovare qualche fonte nell’Inquisizione spagnola, che l’attuale classe dirigente possa lontanamente definirsi erede di Rodrigo Borgia piuttosto che della filosofia romana e greca: lontanamente perché, nonostante la sua condotta terrena, si rivelava un Papa rinascimentale innovatore. È evidente che, circa tribunali e carceri, la visione della politica come della classe dirigente italiana sia ripiombata in quel secolare oscurantismo da cui era sortita tra il 1970 e la fine della Prima Repubblica.
La magistratura, la politica e la classe dirigente in genere sono tornate a non compenetrarsi nei problemi dell’esistenza umana, considerando nuovamente chi va a processo o chi va in galera come feccia sociale da relegare, casomai da schernire con dichiarazioni da fare durante convegni o interviste. La sudditanza della politica nei riguardi della magistratura è del tutto simile a quella che animava i notabili dei regni di Castiglia e Navarra a cospetto di magistrati e giudici dell’Inquisizione.
Nella pratica, il processo inquisitorio ha nuovamente prevalso su quello accusatorio: non c’è più un pubblico confronto orale tra accusatore e accusato, al quale assiste il giudice. Oggi con la Riforma Cartabia, che il Governo non sa come giustificare anche se partorita dal precedente Esecutivo, il giudice è di fatto anche accusatore e sulla base di una denuncia anche generica. Vengono raccolte prove sulla colpevolezza dell’imputato conducendo indagini segrete viziate dal pregiudizio, pervengono ai giudici dossier e “sommarie informazioni” che non hanno nulla a che fare col reato contestato a processo; il processo viene diretto in totale assenza spirituale dell’avvocato difensore. Per giungere alla condanna è sufficiente la testimonianza concorde di almeno due testimoni, o la confessione di un imputato stremato dalle procedure o detenuto in carceri degne di Re Alfonso o di Papa Borgia.
Anche oggi, come nella Spagna rinascimentale o nell’Italia colonia, le udienze si svolgono a discrezione dello stesso giudice; con avvocati ridotti al rango di legulei ed azzeccagarbugli, aitanti a chiacchiere solo nei corridoi e nei bar, ma in aula totalmente in balia dei magistrati, subornati dal potere. Siamo tornati al processo inquisitorio e per censo, a forme di tortura psicologica degne della giurisprudenza di qualche secolo fa. La codardia sociale e politica ha restituito alla magistratura tutte le prerogative che l’Inquisizione attribuiva al “braccio secolare”.
Il lettore potrebbe obiettare che non c’è pena di morte, che non c’è spargimento di sangue, che non c’è tortura. Peccato che nelle carceri i detenuti muoiano di fame, tenuti a pane e acqua, quando privi di “moneta elettronica” per acquistare viveri. Peccato che in questa Italia basti la denuncia di un notabile o di un burocrate per far decollare una pluridecennale persecuzione penale e civile contro l’uomo della strada. Con la Riforma Cartabia, agli imputati, anche quando innocenti, viene raccomandato di ammettere colpe e patteggiare. Perché l’obbligo dell’azione penale s’è pian pianino trasformato in condanne certe per tutti, nel fine pena mai, nella distruzione di esistenze e famiglie. Oggi l’indagato viene visto da magistrati e guardie come un picaro, come un popolano furbo che vuole fottere il potere e vivere di espedienti.
La cultura del sospetto ha trasformato in avventurieri indagabili tutti coloro che non hanno vinto un concorso pubblico, che non sono sbirri o magistrati. La politica non s’impiccia, temendo che Inquisizione o l’Agenzia delle entrate indaghino sulle vite di eletti e mestieranti. Chi scrive ricorda ancora il consiglio gratuito datogli da un maresciallo che controllava i giovani fuori dal liceo: “Non t’interessare di politica... che passi i guai, dobbiamo scrivere sul groppone”.
Aggiornato il 12 aprile 2024 alle ore 08:45