“La Nato oggi è più grande, più forte e più unita che mai”. Lo ha detto il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg aprendo la cerimonia di festeggiamento dei 75 anni del Patto atlantico con la partecipazione dei 32 ministri degli Esteri alleati. Oltre al segretario generale, sul palco si alternano i ministri degli Esteri di Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia e Belgio (ovvero i nuovi membri sin dalla caduta dell’Urss nonché il Paese ospite). “Non credo negli Stati Uniti da soli come non credo nell’Europa da sola”, ha aggiunto Stoltenberg. “L’Europa ha bisogno degli Usa per la sua sicurezza e gli Usa, grazie alla Nato, hanno più amici e partner di ogni altra potenza, e questo moltiplica la loro forza”, ha aggiunto. “Io credo nell’America e nell’Europa insieme unite nella Nato, perché insieme siamo più forti e più sicuri”.
L’importanza strategica della Nato dopo 75 anni è più valida che mai. Tra litigi, conflitti e distinguo, il Patto atlantico torna la pietra miliare della difesa europea. Fondata appunto il 4 aprile 1949 con la firma del Trattato di Washington da parte dei 12 Paesi fondatori (Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti), la Nato è poi cresciuta a ondate successive fino a contare gli attuali 32 membri, con il recente ingresso di Finlandia e Svezia. Una storia di successo ma, al tempo stesso, gravida d’incomprensioni: l’allargamento agli ex satelliti dell’Unione Sovietica, dopo la caduta dell’Urss, ha portato infatti allo scontro con la Russia – oltre che alla scomparsa di ogni cartilagine, ad esempio nel Baltico o per l’appunto in Finlandia. Mosca lo considera un disegno imperiale americano, in spregio alle garanzie teoricamente assicurate a suo tempo da Washington ai vertici dell’Urss di non avanzare a est dopo la caduta del muro di Berlino.
L’Occidente invece lo reputa un processo democratico – peraltro non semplice, come dimostrato da Helsinki e Stoccolma – interamente aperto ai Paesi europei. Il Cremlino, dicono i sostenitori della Nato che hanno vissuto all’interno della cortina di ferro, dovrebbe domandarsi perché chi può “scappa dalla sua sfera d’influenza” e cerca rifugio nell’Alleanza Atlantica. Che pure in tempi di multipolarità e rimescolanza geopolitica, vale ancora “il 50 per cento del Pil globale”. Lo sa bene Kiev. Le fu socchiusa la porta nel 2008 (Francia e Germania si opposero a un invito secco) e da allora vive in un limbo, tanto più amaro oggi poiché, finché Mosca spara, di diventare il 33esimo membro del club non se ne parla neppure. Un fatto è certo: l’invasione dell’Ucraina voluta da Vladimir Putin ha infuso nella Nato una seconda primavera. Con la fine della Guerra fredda l’Alleanza aveva infatti faticato a trovare un posto nel mondo, riciclandosi come attore chiave in teatri di crisi (Jugoslavia, Afghanistan, Libia) perdendo però per strada la sua natura difensiva. I vertici di Madrid e Vilnius, nel 2022 e nel 2023, hanno invece riportato la North Atlantic Treaty Organization al suo core business, la sicurezza collettiva e la deterrenza – verso la Russia, oggi, e magari la Cina, domani.
Il romanzo militare della Nato è fatto anche di scontri, colpi bassi, scheletri nell’armadio, in pieno stile cappa e spada. Perché gli alleati sono tutti democrazie (più o meno) e nel mondo libero si ha il diritto anche di non essere d’accordo, vedi l’esempio francese. Lord Hastings Lionel Ismay, il primo segretario generale dell’Alleanza, nominato nel 1950, con impareggiabile acume british sentenziò che l’organizzazione era stata creata to “keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down” (per tenere fuori l’Unione Sovietica, dentro gli americani e a terra i tedeschi). Un adagio valido ancora oggi, azzardano alcuni diplomatici alleati, soprattutto se si sostituisce Europa a Germania. Gli Stati Uniti, inutile girarci intorno, sono infatti il cuore pulsante della Nato e rappresentano il 70 per cento della sua spesa militare (nonché l’unico Paese ad aver mai invocato l’articolo 5, dopo l’11 settembre 2001).
Charles de Gaulle lasciò il comando integrato proprio per ragioni di sovranità – il quartier generale Nato traslocò in fretta e furia negli slums di Bruxelles e i vari comandi si sparpagliarono per l’Europa – e a tutt’oggi Parigi non partecipa alla filiera di deterrenza nucleare alleata. Un rapporto travagliato, quello della Francia con la Nato. Ci fu anche lo scontro con gli Usa al tempo della crisi di Suez, nel 1956, al fianco della Gran Bretagna; le differenze sul Vietnam (condivise da molti Paesi europei); il drammatico scontro al Consiglio di sicurezza dell’Onu alla vigilia dell’invasione dell’Iraq del 2003, insieme a Berlino.
Aggiornato il 04 aprile 2024 alle ore 15:45