Ancora una volta siamo alle prese con gli scontri fra manifestanti e cortei di varia natura ma, ora più che mai, la prima domanda che sorge spontanea è la seguente: che differenza fa, nella testa dei manifestanti, che il corteo sia ammesso oppure vietato? Sembra che la questione non esista. Permesso o vietato fa lo stesso e, se vi saranno violenze, la colpa non potrà che ricadere sulle forze dell’ordine. Conosciamo questa logica da più di mezzo secolo e si tratta di una premessa ideologica assai chiara e dicotomica: noi, i manifestanti, siamo il bene e il Governo, tramite la polizia, è il male a cominciare proprio dal divieto, palesemente anti-democratico, a dar corpo a un corteo. Convinti di essere portatori di valori irrinunciabili a favore di questo o di quello, i manifestanti si sentono illuminati dagli dei, ambasciatori della verità e in possesso delle risposte giuste a qualsiasi problema e, quindi, disposti a battersi in ogni modo e maniera. Nella certezza, fra l’altro, di poter contare sul sostegno di uomini politici, partiti e commentatori i quali, al posto di un commento ispirato al principio per cui dura lex sed lex, assumono la difesa di chi della legge ha un’idea, diciamo così, instabile e occasionale.
In fondo è la logica dei cosiddetti eco-vandali ma, nei casi più politici, arricchita, si fa per dire, dalla forza di una concezione dell’ideologia come verità assoluta e non come insieme di principi e valori sempre aperti al confronto con altri. Gli uni e gli altri sono comunque accomunati da una ambigua equidistanza fra quella che Karl Mannheim chiamava ideologia da un lato e utopia dall’altro. Ambedue, alla fine, convergono infatti su una visione faziosa della realtà, professata e, anzi, scambiata per la realtà, senza dubbi e senza alternative.
Lo strabismo che questo atteggiamento di base implica è evidente a chiunque non abbia, a sua volta, una posizione dogmatica: si scende in piazza a favore dei palestinesi ma senza averlo fatto, prima, per la strage del 7 ottobre; si urla contro il Governo ungherese e il trattamento nella carcerazione della nostra giovane anti-nazista ma si tace sulla vicenda che ha condotto a morte Alexei Navalny e sulla democrazia putiniana; silenzio assoluto sulla deportazione di bambini ucraini in Russia o sul trattamento delle donne e dei dissidenti in Iran e così via. Questa scelta, diciamo oculata, degli obiettivi è alla fine sempre la stessa: americani, israeliani e gran parte dei Governi europei sono il bersaglio dell’odio e, un po’ come per la politica economica auspicata fino alla noia dalla sinistra più radicale che non si capisce quanto sia mossa dal desiderio di fare del bene ai poveri e quanto, invece, sia vogliosa di fare del male ai ricchi, palestinesi o italiani in carcere a Budapest servono solo per aggredire ideologicamente i Paesi occidentali o, per meglio dire, capitalisti. Aspettiamo con ansia cortei, più o meno autorizzati, contro la Marina italiana, oltre che inglese e americana, chiamate a difendere le rotte commerciali attaccate dai poveri Houthi, affamati di giustizia.
Ci chiedevamo all’inizio cosa accada nella testa dei manifestanti di fronte alla mancata autorizzazione di una manifestazione. La risposta è a questo punto duplice e si tratta, da un lato, di una sorta di cecità isterica le cui origini risiedono nell’ignoranza e in una educazione a dir poco lacunosa e, dall’altro, di una cultura della trasgressione che, ormai da decenni e non solo in Italia, sta facendo scempio dello Stato di diritto. Senza saper proporre, però, modelli credibili e superiori di società ma solo disordini che esprimono un protagonismo a senso unico, tanto più rabbioso quanto più avvertito come senza reali prospettive.
Aggiornato il 26 febbraio 2024 alle ore 09:54