Prima del 1992, quando un progetto industriale, quindi economico, si bloccava veniva data colpa a quella terra di mezzo nota come “rimpallo di competenze”. Probabilmente quella decisione non arrivava, ponendo nel limbo progettualità e speranze, perché l’imprenditore risultava inviso a vari poteri, sia politici che economici. Nel 1993, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, ogni colpa veniva addossata alla burocrazia, soprattutto quella legata all’allora Partito democratico della sinistra e alla Cgil. E logicamente alla magistratura, che aveva visto ampliarsi la propria sfera di potere grazie alla riforma del Codice di procedura penale avvenuta nel 1989: quella che appunto permise di liquidare per via giudiziaria il Pentapartito. A conti fatti, oggi possiamo asserire che la politica berlusconiana abbia acuito la contrapposizione tra cittadini e dipendenti pubblici, trasformando i secondi in censori di ogni attività dei primi, fino al punto di far percepire alla gente che il fine della legalità sarebbe incatenare il lavoro dell’uomo, ravvisando reati in ogni idea, progetto o costruzione. A ben guardare, la società italiana è bloccata: nessuno riesce più a fare nulla, temendo che nell’idea stessa di movimento possa essere insito il pericolo di processi, sanzioni, condanne.
Il sodalizio tra burocrazia e magistratura esiste, anche se è difficile appurare in quali ambiti riesca meglio a edificare la società bloccata. Ed è persino inutile che l’uomo della strada si domandi: “Ma il burocrate ha parenti o figli? Non teme che possano rimanere disoccupati?”. Le cronache degli ultimi anni ci hanno ampiamente dimostrato come sia stato edificato, dal 1992, un efficace sistema di autotutela della casta burocratico-giudiziaria, favorendo il bando di concorsi miranti all’inserimento di soli figli e parenti di funzionari e alti dirigenti nei ruoli dello Stato, oppure permettendo chiamate dirette e decreti in favore dei discendenti di toghe e dintorni. E non apriamo il capitolo Rai dove vengono allocati solo i figli dei soliti. L’Italia rappresenta il paradigma della società bloccata, ovvero quel sistema simbolico a cui la classe dirigente burocratico-giudiziaria riconosce la capacità di costruire il fondamento d’una propria ulteriore prassi, un modello fondativo impermeabile alle ingerenze di qualsivoglia uomo di strada.
Nel 1993 fu il democristiano Ciriaco De Mita a consigliare alla casta la strada giusta per abbattere Silvio Berlusconi. Ricordo come fosse ieri che ebbi a commentare, col compianto amico e collega Arturo Diaconale, le parole di Ciriaco De Mita. “Hai sentito cosa ha detto De Mita – mi faceva notare Arturo – che la burocrazia deve incrociare le braccia, in pratica fermare Berlusconi fermando l’Italia”. L’argomento diede la stura ad articoli e inchieste, ma il centrodestra dell’epoca (il Polo delle Libertà) faceva affidamento sulla prassi di Pinuccio Tatarella, sui decennali rapporti di Pinuccio con direttori generali e poteri vari. L’amico Tatarella, anche noto come “Il ministro dell’armonia”, si spegneva nel 1999, conscio che nessuno in sua vece avrebbe potuto mai insinuarsi cotanto bene nei gangli del potere istituzionale. Pinuccio era l’uomo degli accordi impossibili, e riusciva a far convergere i democristiani Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio sulle stesse posizioni di Alleanza nazionale, per poi rimuovere ogni ostacolo a provvedimenti e politiche, permettendo il varo dei progetti, soprattutto che la politica mantenesse le promesse. Quante volte ho sentito “tanto Pinuccio sblocca tutto, tanto Pinuccio sistema ogni cosa… e mette tutti in armonico accordo”. Il dopo Pinuccio è quello che abbiamo sotto gli occhi da ben venticinque anni, l’immobilismo istituzionale e il conseguente blocco dell’ascensore sociale e delle prospettive d’impresa di ogni normale cittadino.
Ecco perché è encomiabile che Matteo Salvini e Francesco Lollobrigida ci abbiano provato a dire che verso gli agricoltori ci vuole clemenza, bontà, forse anche quel “democristiano” perdono che passa attraverso l’azzeramento di sanzioni e debiti maturati per mancati adeguamenti a norme europee. Ma anche dimostrare, a contadini e agricoltori italiani, che nessuno esproprierà le loro aziende e allevamenti, soprattutto che gli atti della Commissione europea si possono fermare politicamente. È anche naturale che agricoltori, artigiani, commercianti e piccoli industriali non credano più alla politica: negli ultimi trent’anni si sono dimostrati il bersaglio preferito di burocrazia, malagiustizia e fisco. E non dimentichiamo che sarebbe bastato dimezzare l’Imu per rilanciare la propensione all’investimento individuale nell’edilizia e nelle aziende. Invece il Governo Conte ha inventato il Superbonus 110 per cento ben sapendo che l’Agenzia delle entrate avrebbe poi avviato (come atto dovuto) le procedure contro i beneficiari.
Oggi la gente è sfiduciata, perché percepisce la prospettiva della “governance economica europea” come quel nodo scorsoio che la rappresentanza politica italiana non sa recidere. L’intreccio tra Six Pack, Fiscal Compact, Two Pack ha trasformato le Autorità europee in feudatario, e quelle nazionali, in vassalli a cui non è dovuta alcuna spiegazione. E sembra non valga nemmeno la pena sottolineare la poca coerenza nelle decisioni di bilancio dei singoli Stati membri. Perché rispetto ai trattati c’è chi può agire e chi invece deve subire il blocco di ogni attività. L’elettorato percepisce la forte impotenza dei propri corpi intermedi nel dialogo con Commissione Ue, delle banche centrali, della Corte dei conti europea, Fiscal councils, Comitati di controllo. Soprattutto gli agricoltori si sentono un po’ come agnelli alla fonte, costretti a dar sempre ragione al lupo proprio come nella favola di Fedro. Perché nessuno ha il coraggio di dire a Bruxelles (a parte il primo ministro ungherese Viktor Orbán) che le regole adottate dall’Unione europea per rendere sostenibile l’evoluzione della finanza pubblica sono sballate, degne d’una corte di monarca assoluto.
Così, probabilmente, il timore europeo porta Marco Osnato di Fratelli d’Italia ad affrettarsi a dire che “la proposta del taglio dell’Irpef agricola era del Carroccio di Giorgetti”, questo mentre il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida (anche lui di FdI) afferma al presidio romano dei trattori: “A tutti ho garantito l’impegno contro Irpef e Imu e norme Ue… Le polemiche arrivano da pezzettini di Parlamento”. Nel frattempo, Matteo Salvini conferma che la Lega è d’accordo su tutta la linea con gli agricoltori in protesta. Ma a gelare speranze e animi provvede la dichiarazione di Ursula von der Leyen che conferma “mi ricandido, l’Ue per me è casa”. Una decisione, sul secondo mandato, gradita ai poteri bancari europei, ben ponderata in ambito agli accordi stretti a Bruxelles tra Popolari e Socialisti. “Cinque anni dopo – dice von der Leyen – prendo la decisione molto consapevole e ben ponderata di candidarmi per un secondo mandato alla guida della Commissione europea”; parole ufficiali profferite durante la conferenza stampa di Berlino, a cui era presente anche il presidente della Cdu, Friedrich Merz. Tutto il Ppe plaude a questa notizia, e Forza Italia promette di essere in linea con tutte le proposte del Ppe. A questo punto la gente, gli agricoltori, gli artigiani, dovranno farsene una ragione accettando la società bloccata, la consequenziale “povertà sostenibile” come forma perfetta di legalità che, bloccando ogni movimento umano, ci dona una sorta d’inedia, di estasi, di santità.
Aggiornato il 23 febbraio 2024 alle ore 11:23