La via della schiavitù di Hayek, ottant’anni dopo

Compie ottant’anni La via della schiavitù, una delle opere di maggior rilievo di Friedrich August von Hayek, che per Antonio Martino, autore dell’introduzione all’edizione italiana, “rappresenta un punto di svolta nella produzione accademica di Friedrich August von Hayek e una pietra miliare nella storia del liberalismo”, giacché con esso, prosegue ancora Martino, “ha inizio il rinascimento liberale che ha caratterizzato la storia dell’ultimo mezzo secolo e che ha portato il liberalismo classico da minoranza isolata ad un ruolo di avanguardia nel dibattito politico contemporaneo”. Nel periodo della sua stesura, “nei ritagli di tempo tra il 1940 e il 1943, mentre il mio lavoro era ancora strettamente incentrato su problemi di pura teoria economica”, come ha evidenziato lo stesso Hayek nella prefazione all’edizione del 1976, il grande pensatore austriaco, premio Nobel per l’Economia nel 1974, si trovava in Inghilterra, dove era si era ormai stabilito sin dal 1931, da quando aveva raccolto l’invito di Lionel Robbins a tenere delle lezioni alla London School of Economics. Queste, intitolate Prices and Production, “produssero una tale impressione di conoscenza e creatività analitica” da indurre le autorità accademiche a volerlo come professore presso quella università. Era poi diventato cittadino britannico dopo l’Anschluss dell’Austria da parte della Germania hitleriana e per il disgusto provato per la presa di potere nazista nel suo Paese.

Pubblicato dalla casa editrice Routledge di Londra, con il titolo The Road to Serfdom (tradotto in italiano da ultimo con il titolo La via della schiavitù), dopo che, ha ricordato Milton Friedman, “diversi editori si rifiutarono di pubblicare il libro nella convinzione che sarebbe stato un insuccesso editoriale”, in uno dei momenti più tragici per l’umanità, con la Seconda guerra mondiale che seminava morte e distruzione in qualsiasi parte del globo. In un contesto politico dominato in prevalenza da quello che lo stesso Hayek chiama “socialismo”, il libro è stato ricavato da un più ampio progetto dal medesimo autore “per opporsi al (…) socialismo, il cui principale scopo è la nazionalizzazione o socializzazione dei mezzi di produzione”. Il suo successo è stato immediato, tant’è che esso è stato citato in Parlamento e recensito da giornali e riviste, tra i cui il Financial News, che in un fondo lo ha presentato come l’“Attacco alla pianificazione” e The Listener, la pubblicazione della Bbc, che lo ha giudicato come l’opera che “avrebbe dovuto essere letta da tutti”. La stessa Bbc ne ha trasmesso una significativa parte.

Dopo la pubblicazione in Inghilterra, The Road to Serfdom è apparso negli Stati Uniti nel settembre 1944, per i tipi della University of Chicago Press. In America, il risultato conseguito è stato anche maggiore, tanto da entrare nella classifica dei libri più venduti dal marzo al maggio 1945. Hayek stesso ha commentato: “Il fatto certamente più inaspettato avvenne dopo la pubblicazione del libro da parte del suo attuale editore, che cominciò a vendere un numero di copie quasi senza precedenti per un’opera di questo genere, non concepita per il grande pubblico”. L’opera è stata recensita da Henry Hazlitt sulla prima pagina del New York Times Book Review. A essa sono seguite altre recensioni, tra le quali quella di Graham Hutton sul Chicago Daily News e di altri commentatori, che lo hanno visto come “uno dei grandi libri del secolo”. Nell’editoriale del 25 maggio 1945, il New York Mirror è giunto ad affermare che “The Road to Serfdom è un libro che può essere collocato tra le più grandi opere mai scritte su ciò con cui gli americani si misurano da sempre: la libertà”. Una diffusione ancor più ampia è stata poi data dalla sintesi apparsa sul Reader’s Digest, a cura di Henry Hazlitt, che lo stesso Hayek ha considerato “veramente ben fatta”. Negli anni successivi, l’opera ha venduto, nelle varie edizioni, milioni di copie in tutto il mondo. Margaret Thatcher e Ronald Reagan, tra i tanti, hanno ammesso più volte che senza Hayek, e in particolare proprio senza The Road to Serfdom, i loro progetti politici non sarebbero stati gli stessi. Il che è la dimostrazione che non si può fare politica senza cultura, nel senso quest’ultima nutre i progetti politici. In mancanza, c’è solo gestione della quotidianità, ricerca del potere per il potere, declino di tutte le dimensioni della vita.

Il volume è dedicato “ai socialisti di tutti i partiti”, nei quali vanno annoverati non solo quelli dell’epoca, ma anche i socialisti dei decenni successivi e di oggi che, più riduttivamente rispetto ai primi ma con identici risultati, perseguono il miraggio della giustizia sociale e puntano a un sempre maggiore intervento dello Stato e alla redistribuzione del reddito. La tesi di fondo – che muove dalla constatazione dell’esistenza di “due metodi alternativi di gestione degli affari sociali, la competizione e la conduzione governativa” – è che il collettivismo, ovverosia “l’organizzazione deliberata degli sforzi della società per uno scopo sociale definito”, del quale il socialismo è la specie di gran lunga più importante, conduce sempre, prima o poi, al totalitarismo. Né miglior destino può riservare il “socialismo democratico”, “la grande utopia di alcune delle ultime generazioni”, il quale “non solo è irrealizzabile, ma (…) produce qualcosa di così palesemente differente che, tra coloro che ne auspicano l’avvento, sarebbero pochi quelli pronti ad accettarne le conseguenze”.

Altra importante tesi sostenuta da Hayek, peraltro in contrasto con tanti intellettuali, è l’origine socialista di fascismo e nazismo, la cui nascita “non è stata una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma quanto piuttosto un esito necessario di quelle tendenze”. In Germania e in Italia, infatti, i movimenti socialisti avevano preparato il terreno alle dittature contribuendo, da una parte, a plasmare le menti alla logica dell’organizzazione gerarchica; dall’altra, alimentando illusorie speranze egualitarie, le quali hanno finito per aprire la porta ai regimi totalitari, considerati gli unici in grado di realizzarli.

Demoliti gli ideali socialisti e demistificati i loro presunti spunti libertari, lo scienziato austriaco ha proceduto sulla “via della libertà” nella Grande Società. Essa è ancorata alla libertà individuale e alla proprietà privata, da esercitare “sotto la vigenza di un sistema legale efficace e intelligente” e nel mercato, il quale rappresenta una forma di cooperazione sociale volontaria, che realizza cioè il co-adattamento delle azioni individuali senza obbedire a un piano unitario: “È stata la sottomissione alle forze impersonali del mercato – ha pure rilevato Hayek – ciò che in passato ha reso possibile la crescita della civiltà che altrimenti non sarebbe avvenuta”. L’alternativa a ciò, è “la sottomissione al potere di altri uomini (…), incontrollabile e perciò arbitrario”, che ci priva della libertà individuale di scelta e di quel grande processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori: quel che sta alla base della nostra civiltà e del nostro benessere.

In conclusione, si può senz’altro affermare che, nonostante celebri il suo ottantesimo genetliaco, La via della schiavitù conserva ancora intatta la sua vitalità e sia indiscutibilmente attuale. È un patrimonio intellettuale ricchissimo dal quale attingere, anche per comprendere che solo il mercato, la concorrenza, il rispetto della libertà individuale e della proprietà privata possono aiutare gli individui a progredire. “è stata la sottomissione alle forze impersonali del mercato ciò che in passato ha reso possibile la crescita della civiltà che altrimenti non sarebbe avvenuta”, ha rilevato Hayek, che ha poi sottolineato: “È in virtù di questa sottomissione che ogni giorno cooperiamo alla costruzione di qualcosa di più grande rispetto a quello che ciascuno di noi possa pienamente comprendere”.

(*) La via della schiavitù di Friedrich August von Hayek, prefazione di Antonio Martino, Rusconi, 304 pagine

Aggiornato il 13 febbraio 2024 alle ore 10:11