La “parte notturna” del mondo moderno e la sua condizione morale
Sembra un affresco barocco del “gran teatro del mondo” quello enunciato nel titolo, una raffigurazione che, non arrestandosi alla superficie formale, tende ad arrivare, nella desacralizzata società del nostro tempo – in cui l’orizzonte del mondo è affidato interamente all’uomo – al cuore del problema, quello della governance, che è di ordine metafisico e morale, in una parola etico a largo raggio. Tutto ciò va a connettersi da un lato alla umana pretesa di edificazione di un mondo senza ombre né difetti, ciò che si identifica con il concetto di Utopia (dal greco “ou topos”, non luogo, realtà che non esiste), dall’altro al reperimento del senso della vita smarrito in una irreversibile crisi esistenziale, vale a dire al recupero della propria identità, una riconversione in cui la conoscenza della storia è essenziale, a maggior ragione ora che l’uomo moderno ha scoperto anche la “parte notturna” del mondo: volontà di potenza, sopraffazione e via dicendo; insomma, tutto ciò che affiora quando sembra che Dio lasci soli gli uomini, i quali, abbandonati alla estrema libertà di se stessi, entrano nel vorticoso “non-withe-world” del male più totale.
Ma non perché siffatto spazio pernicioso si sia rivelato solo in questi ultimi tempi della storia, dato che è sempre esistito in quanto consustanziale alla stessa natura umana, ma il fatto è che l’irrompere sulla scena, in quest’ultimo secolo, di altre forme di Utopie – la socialcomunista e quella nazista per intenderci – che hanno tristemente affiancato quella Chiliastica, di segno millenaristico, sussistente sin dal Medioevo e legata al ritorno di Cristo e alla instaurazione del Regno di Dio sulla terra, e quella Liberal-umanitaria, sostanziantesi essa nel prevalente impegno deontologico delle dottrine liberali.
Queste, emerse già alla fine del Settecento, per poi consolidarsi e realizzarsi nel secolo successivo, si sono incentrate sulla natura del sé e l’idea di persona nonché sul liberalismo come metodo e come teoria della libertà, tenuto conto, quanto al punto nodale del rapporto tra uguaglianza e libertà, che “L’unica uguaglianza possibile è quella di tutti gli uomini davanti a Dio” (Angelo Costa). Cosicché, imporre, attraverso strumenti umani, l’uguaglianza economica fra tutti i componenti della comunità non solo è utopico, ma è soprattutto ingiusto, poiché, senza alcuna diversità, pretende l’uguaglianza dei punti di partenza e di arrivo. È qui che giunge a proposito l’affermazione del drammaturgo cattolico contemporaneo Paul Claudel: “Quando l’uomo tenta di immaginare il Paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”! Esattamente quel “Paradiso in terra”, la realizzazione del telos immanente della storia universale, come portato specifico di una soteriologia gnostica scaturente dalla radicale teodicea storicistica elaborata da Karl Marx, così come immaginata dagli “illuminati” marxisti e veteromarxisti – gli “orfani di Dio” – per i quali il comunismo ha rappresentato la concreta materializzazione dell’Utopia chiliastica, l’enigma della storia finalmente risolto: gli “orfani” della reale prospettiva del “Regno di Dio senza Dio”, del realizzarsi dell’evento palingenetico della rivoluzione comunista come purificazione e salvazione del mondo. Ed è grottesco che ancora allo stato attuale, ancorché con diverse forme dotate di certa persuadibilità, la “Mitologia dell’uguaglianza” continui ad ammorbare il tessuto sociale, come frutto venefico di una noumenica sinistra, ben lontana dai principi liberali e ancora racchiusa in una sua spettrale identità irrisolta.
Volendo tratteggiare una autoctona forma utopica, non va dimenticata nel secolo scorso, sulla scia innanzi tracciata, quella del carismatico Giorgio La Pira, il La Pira affascinato da Nikita Krusciov, il quale rappresentava la punta avanzata del “progressismo” cattolico, credendo di poter avanzare nella storia nella stessa direzione del comunismo. Il La Pira statalista, che, ponendo tutto nelle mani dello Stato, finiva per farsi fautore di una forma cleptocratica e teratologica di “dispotismo democratico”, il La Pira dal linguaggio biblico, mistico e teoretico, indebito e trasbordante. Sua la tecnica mistica del potere, quella che riconosce un’energia divina come sorgente del potere politico, sua la visione di Firenze come l’Herrenwolk, la nuova Hierusalem, rivelatrice ai popoli del disegno divino di pace e di prosperità. Sua l’intellighenzia progressista, azionista e giacobina, sua l’immoralità del machiavellismo come tecnologia di dominio, sua la proiezione del “sovrano collettivo”, del rousseauiano “tutti noi”, suo l’auspicio di “bolscevizzazione” dell’apparato statale e della società, sua la visione di Firenze come braccio secolare, la città che, sposando sia la bellezza umana che quella divina, sarebbe divenuta la banditrice del messaggio della nuova Gerusalemme!
Ma spesso l’Utopia, per quanto possa essere “nobile” nelle intenzioni, peccando di hybris e nel tentare di dare un assetto definitivo al vivere sociale, perde di vista l’individuazione attenta e lungimirante di obiettivi reali da perseguire per il bene comune, in quanto non esiste, né è mai esistita e mai esisterà, una società perfetta, ma, secondo i dettami liberali, soltanto una società perfettibile ogni giorno di più: purché, però, si abbia la saggia intelligenza di saper interpretare tutte le variabili ad essi legati, la scelta di quelle decisioni ragionevolmente realizzabili, la costanza, la coerenza e il faro di un’etica politica che spiani in positivo l’azione quotidiana tesa allo sviluppo realizzativo di un progetto. Un’etica, dunque, che attenga non tanto alla questione dell’apparato giuridico di uno Stato, che è un conto, ma soprattutto a quella della moralità del suo governo, che è un altro, atteso altresì che, al fine di ritessere il filo spezzato tra verità, ragione e politica, non è meno fondamentale anche la “condizione morale di una società” in atto in un determinato momento storico, il contesto reale per l’esercizio di un’attività pratica semplicemente ragionevole.
È proprio qui la quaestio! Quella attuale è una società inoltratasi incautamente in un “deserto” morale, anzi adagiata su un comodo relativismo morale, una società pragmatica, superficiale ed arruffona, in cui lo spazio per gli ideali e per la cultura diventa sempre più esiguo, una società straordinariamente funzionalizzata, in cui persino la morale è diventata “plastica”; cosicché, anche il confronto dei valori alti della politica, che dovrebbe trovare fondatamente la sua premessa nello spirito etico, slegato da valori laico–liberali, è diventato asfittico e inconsistente. È l’etica della responsabilità, più che quella delle intenzioni, ciò che dovrebbe caratterizzare l’operato del politicus, vale a dire la responsabilità concreta della scelta consistente proprio nella fatica, priva delle certezze del passato e delle gabbie ideologiche del presente, di legare senza sosta la situazione oggettiva ad un progetto, ad un compito, ad una causa, una giusta causa: il bene comune appunto.
Di certo, nell’attuale situazione di sostanziale alienazione del complessivo quadro sociale, soprattutto sotto il profilo morale, ci si chiede – almeno per quanto riguarda il nostro Paese – se un netto miglioramento del suo assetto debba transitare per una costruzione politica frutto di una grande trasformazione interiore unita ad una coraggiosa maieutica civile di rinascimento. Una rivoluzione spirituale della politica soprattutto nel suo scopo umanistico, ma non come mera affermazione di diritti – un’idolatria qualificante una democrazia invertita e pervertita, un monstrum comunitaristico in re ipsa antiliberale teso ad identificare l’individuo con l’autorità statuale – bensì come dimensione etica a carattere generale. Insomma, per edificare un secondo “Rinascimento” occorre che si affermi una nuova cultura politica, spirituale e disinteressata, che riposizioni al centro dello spazio partecipativo la persona umana nella sua duplice dimensione sociale e individuale.
Non soltanto nuove forme esteriori e nuovi simboli, dunque, quelli della politica a venire, ma un nuovo carattere spirituale per formare cittadini “spirituali”, una nuova moralità pubblica e privata, un nuovo ethos che non sia quello dei soliti ciarlatani e venditori ambulanti di prodotti deteriorati. A fronte della immoralità del machiavellismo – che riteneva “più conveniente inseguire la realtà effettuale delle cose” – così come largamente metabolizzato nella vita politica del nostro Paese, si pone l’insegnamento di Immanuel Kant, il quale affermava che “la vera politica non può fare alcun progresso se prima non ha reso omaggio alla morale”, nonché quello di Benedetto Croce, il quale identificava nell’onestà politica la stessa capacità politica “giacché la vita politica o prepara la vita morale o è essa stessa strumento e forma di vita morale, e in nessuno dei due casi è concepibile contrasto o conflitto”. È proprio in base a questo semplice abbozzo di dottrine sul rapporto tra etica e politica che occorre domandarsi quanto sia degradata la democrazia dell’Italia repubblicana: un odore di muffa che si espande nell’aria, un odore di umida miseria morale, un odore di farisei in agguato; tutti elementi questi che hanno caratterizzato il parossistico sviluppo della Teoria democratica, come pura concezione del potere e della sua giustificazione, contrapponendola alla Teoria liberale, che è, invece, una teoria della limitazione del potere, la teoria per eccellenza della limitazione potere, così come appunto storicamente nata e rimasta tale.
Affinché, dunque, la nausea della politica non abbia a diffondersi più della nausea delle gestanti, si rende indispensabile – oggi peraltro potrebbero essere anche presenti le precondizioni politiche per un significativo restarting – un ripensamento profondo tra verità e prassi, tra morale e politica, cioè la formazione di “cittadini spirituali” e di nuove classi di dirigenza politica, deputata, sul piano istituzionale e sociale, a servire meglio il “bene comune”: questa dovrebbe tornare ad essere la “missione storica” degli intellettuali – oggidì, invece, perlopiù genuflessi ad una ancora imperante gramsciana “egemonia culturale” della sinistra nostrana – cioè di una élite culturale moralmente illuminata. Di certo, non più, come nel Novecento, l’intellettuale che reciti nella società ruoli rivoluzionari e che diventi combattente, militante–politico, uomo di Stato, insomma il gramsciano “intellettuale organico”, bensì, nel tentativo di riconciliare etica e libertà politica, tra democrazia e libertà individuale, con le nuove forze della politica di massa, l’uomo di pensiero che punti a moralizzare gli italiani piuttosto che a farli ridere di se stessi, facendosi il portatore di una cultura eticamente forte da radicarsi sempre più nelle coscienze individuali e nella società nel suo complesso.
Certamente un’opera titanica questa, che dovrebbe partire proprio dal ripensamento dello Stato, di questo Stato, che, sorto dalle ceneri del fascismo e di una guerra perduta, avrebbe dovuto assumere la difesa del valore della libertà come l’alfa e l’omega della sua elaborazione teoretica, ma che, invece, si è incuneato, per buona colpa della sua “democrazia bloccata”, in un tunnel senza uscita, stretto tra l’abuso della ragione e l’abuso del potere, con il suo strascico di folle utopia tesa ad alimentare processi di annessione ideologica. Avremmo dovuto combattere tutti per la legge come in “difesa delle mura” e invece abbiamo dovuto imparare a combattere per difenderci dalla legge, grazie alla quale lo Stato è diventato padrone di tutto: uno Stato che da primario servizio pubblico secondo la concezione liberale, si è trasformato – in base ad una valutazione teocentrica, gravida di conseguenze in termini di controllo e di occupazione del potere – in una nuova e assolutistica “divinità”, un moderno “Stato-divinità” inedito in democrazia, uno Stato–Moloch, con la sua “marmellata” di privilegi e di parassitismo, verso cui non abbiamo avuto neppure la dignità di indignarci.
È proprio la patogenesi del caso italiano a porre l’interrogativo in ordine al fondamento etico dello Stato moderno, cioè la democrazia, specificamente nella sua accezione di democrazia liberale, come Governo del popolo, vale dire un sistema in cui il popolo è sovrano. Dobbiamo chiederci, quindi, se tale fondamento valga anche per la libertà individuale: in altre parole, se i due termini del binomio “democrazia liberale” siano perfettamente intercambiabili, ovvero se “l’uso” del primo comporti in automatico anche quello del secondo oppure sia ravvisabile una incoerenza di fondo tra i due fattori della definizione in questione. Insomma, la domanda di fondo è se lo Stato trovi veramente la sua legittimazione sulla assoluta inscindibilità del binomio o soltanto sul primo termine dello stesso, vale a dire sul predominio della democrazia.
Va da sé, che se il principio basilare del concetto di libertà, fondamento della teoria liberale, è rappresentato dall’assenza di costrizione, vuol dire che la democrazia da sola non è sufficiente a risolvere i problemi di una società di uomini liberi, il che può causare una drammatica ambiguità dell’azione dello Stato: ciò è dato dal fatto che la sua legittimità, sicuramente discendente da processi elettivi tipici della democrazia – e soltanto da questi – non implica necessariamente anche il rispetto della libertà individuale. La costrizione dello Stato, il quale ha il monopolio dell’uso della forza, è sì legale, ma il fatto che sia legale non la rende meno coercitiva. In realtà la democrazia, che lo si voglia ammettere o meno, rappresenta, nel moderno Stato di democrazia classica occidentale, soltanto una soluzione del problema della determinazione della forma del potere, senza per questo definire l’altro problema, molto più importante, di fissare i limiti tra la sfera pubblica e quella privata, vale a dire i confini invalicabili tra il potere e la libertà individuale. Ed è proprio questo rapporto tra istituzioni, società e singolo individuo che noi liberali interpretriamo in modo problematico, a maggior ragione in un Paese, il nostro, in cui non è riuscito il passaggio tra liberalismo e liberaldemocrazia.
E qui, dunque, torna la questione innanzi enunciata dell’apparato giuridico dello Stato, che è un conto, in quanto la sua legalità lo rende sì legittimo, ma un altro conto è la sua eticità, che viene a definirsi solo in relazione alla moralità del suo Governo, peraltro in un contesto di moralità pubblica. Con ciò non si vuole negare che lo Stato moderno – quello che nasce a seguito della “Rivoluzione atlantica” e successivamente delle rivoluzioni democratico liberali ottocentesche, realizzatosi nel nostro Paese con la monarchia sabauda, dotata di ben altra etica politica a fronte di quella striminzita dell’Italia repubblicana – la cosiddetta forma di Stato di democrazia classica occidentale, abbia teoricamente una sua eticità di fondo, ciò che sostiene ed anima la sua legalità, ma i suoi successivi sviluppi, sfociati, nel Secondo dopoguerra, nella “democrazia sociale”, lo hanno portato, in special modo nel nostro Paese, istituzionalmente debole e lacerato da antitetiche visioni politiche, ad assumere le inumane sembianze di un “sovrano collettivo”, con la sua mortifera colata di leggi che ci sommerge sempre di più, tutelata dall’uso della forza, che ha il potere di trasformare i diritti individuali in diritti collettivi, e con la sua inflessibile ideologia massificante, una vera e propria sindrome da “democrazia livellata”, che scandisce ogni momento dell’esistenza. Se la sinistra non avesse preteso, in tanti decenni, anche “l’anima della nazione”, è probabile che la società si sarebbe evoluta in una diversa direzione! Ma questa è la dimensione attuale della nostra società e dello Stato con la sua “avvelenata” pseudomorphosis, frutto di una sorta di “lotta teologale” a lungo condotta da nuovi mistici: la dimensione apocalittica di un nuovo nichilismo pervasivo e metastatizzante l’intero tessuto sociale.
È il sano “individualismo liberale” che si è voluto soffocare in nome di pretesi diritti collettivi garantiti solo dallo Stato, padrone di tutto, arbitro di interessi divergenti e fondatore dei legami sociali, secondo la tipica visione della socialdemocrazia, senza tener conto del fatto che il “bene collettivo”, in quanto non esiste un legittimo proprietario, diventa oggetto di un conflitto per la sua appropriazione. Cosicché, invece di realizzare la coesione sociale, ciò che avrebbe potuto realizzare un probo individualismo liberale in quanto basato sul riconoscimento di legami sociali, la socialdemocrazia, sostituendo tali legami con arbitrarie contraddizioni tra categorie sociali, ha finito per distruggerlo. Insomma, paradossalmente, la ricerca costante della coesione sociale da parte dell’interventismo statale ha causato l’esatto contrario, cioè l’affermarsi dell’individualismo anarchico, ossia la generalizzazione dei conflitti sociali in nome dell’interesse generale.
Non siamo ancora in grado di sapere se vi potrà essere una generazione di “uomini nuovi”, che, giunti da un “lungo viaggio” al termine della “notte della Repubblica”, saranno capaci di formulare, non in chiave antinomica, un nuovo modello di civiltà che possa contemperare, allo stesso tempo, le esigenze della comunità nazionale con quelle del singolo individuo, rivalutato soprattutto nella sua essenza etica. Ormai non serve più drogarci, sottoponendoci a cure intensive di tipo euforico, un vero e proprio effetto da doping, rispetto all’idea della democrazia come realizzazione suprema di Governo della società e di sviluppo del singolo individuo, dato che la democrazia da sola non è sufficiente a risolvere i problemi dell’umanità. Noi liberali non sogniamo restaurazioni parrucchine poiché ammettiamo le esigenze di nuova socialità, ma sempre in allerta a fronte del pericolo che possa estinguersi la libertà. E non saremmo liberali se, pur rimanendo un pugno di non conformisti intorno all’edificio minacciato della libertà, non lottassimo con ogni mezzo per difendere il diritto insopprimibile di ogni singolo di lanciare il suo no all’onnipotente Leviatano.
Aggiornato il 17 gennaio 2024 alle ore 12:44