Ma quale patriarcato? Il problema è il lavoro

È dal 1992 che una strisciante guerra civile mina i rapporti tra cittadini (gente normale e di strada) e pubbliche amministrazioni. Questa guerra ha sostituito l’ungere i binari: quella “sana corruzione” che permetteva d’aprire bottega attraverso regali al pubblico funzionario.

In oltre trent’anni questo conflitto è stato capace d’azzerare la voglia di fare degli italiani. La maggior parte dei trentenni di oggi non vuole fare nulla perché ha assorbito mentalmente dai genitori le negatività che s’abbattono sui cittadini laboriosi: le contrarietà, i bastoni tra le ruote e le beghe legali che la pubblica amministrazione arma contro chi apre laboratori e aziende. Così i giovani non cercano lavoro e nemmeno vengono tentati a stimolare la propria creatività.

Quei pochi che ci riescono, realizzando “startup innovative”, sono per lo più figli di pubblici funzionari, di dirigenti di stato, di aristocrazie imprenditoriali: grazie ai soldi ed alle entrature dei parenti costruiscono aziende a cui è tutto dovuto, tutto liscio come l’olio ai ragazzotti perché ci pensano mamma e papà, nonni, zii e amici potenti… naturalmente Rai, Mediaset, La7 ed altre reti parlano della cosa come d’un miracolo italiano. Ma quest’ultimo non ha nulla a che vedere con gli anni ’50 del Secolo breve, quando l’operaio si faceva artigiano e, partendo da uno scantinato, realizzava un bel fabbrichino. I giovani d’oggi respingono l’idea di lavoro poiché sommano due aspetti repulsivi verso il fare: la paura di rovinarsi con le proprie mani, per via dei tanti impedimenti burocratici, si somma alla cultura ambientalista che vede nel lavoro umano la primaria fonte d’inquinamento del pianeta. E se lavorare fa male sia all’uomo che alla natura, il giovane incrocia le braccia e saggiamente consiglia a sua volta a genitori e proprio prossimo di lasciar perdere. 

Ai giovani viene da troppo tempo ripetuto che “le tecnologie digitali aiutano a creare società più sostenibili”, che “il lavoro umano non è più necessario” anzi “è nocivo per l’ambiente”, che una “povertà sostenibile” gestita da algoritmi sempre aggiornati e sotto l’egida dell’Intelligenza artificiale permetteranno agli uomini del futuro una vita contemplativa.

Di fatto viene ripetuto a mo’ di disco rotto che il lavoro umano è inutile, anzi nocivo. Del resto durante la pandemia ci avevano detto, e a chiare lettere, che dal digitale sarebbe arrivato il grande contribuito per passare verso la società sostenibile: nessuno dei potenti della Terra ha promesso il lavoro dopo la pandemia, e nemmeno che sarebbe stato facilitato l’accesso a professioni e mestieri. Anzi, proprio l’Unione europea ha posto più rigorose norme europee come condizione per erogare il Pnrr. 

È  stato detto chiaramente nel dossier “Digitalizzazione e sostenibilità per la ripresa dell’Italia”, realizzato da “The European House - Ambrosetti” in collaborazione con “Microsoft Italia”: lo studio documenta che le tecnologie digitali sono risorse necessarie per raggiungere la sostenibilità economica, sociale e ambientale.

Ma nessuno ha mai detto facilitiamo i giovani perché aprano bottega o perché vengano assunti. Anzi le aziende lavorano alacremente alla decurtazione del personale, e lo stesso Pnrr parla chiaramente di aiuti economici a chi sostituisce l’uomo con il robot. E se vi dovesse passare per la mente di chiedere lumi al Landini di turno, il tipo svierebbe e poi vi porterebbe per mano verso l’idea che la tutela dell’ambiente venga prima di quella dell’uomo, del lavoratore. In pratica pagate una tessera sindacale perché una foglia di fico venga prima dell’uomo.

Naturalmente nei programmi generalisti e d’intrattenimento vi mostreranno ragazzi felici che hanno avviato attività agricole “sostenibili”, e scoprirete che i giovinetti non hanno mai terminato un ciclo di studi universitari, che dai loro cognomi emergerebbero parentele con magistrati, dirigenti di ministeri, consanguineità con banchieri e jet set gradito al salotto. Insomma, la solita truffa operata dalla comunicazione fuorviante e corrotta.

A queste immagini edulcorate si contrappone la narrazione negativa, ed a reti unificate, del giovane di periferia, accusato ben che vada di fare lavori abusivi, di recarsi allo stadio per menarsi con gli altri tifosi, di essere tentato dallo spacciare per aiutare familiari e amici, di guidare vetture e moto non aggiornate alla “categoria euro”, d’invadere con la movida i quartieri bene della città.

In questa inedia imposta dall’alto, aggravata dalla ultratrentennale guerra tra “pubblica amministrazione” e cittadini, le statistiche s’accorgono che i giovani italiani emigrati sono il triplo di quelli che si pensavamo fino ad un annetto fa. “Colpa dei registri che analizzano”, dice qualche addetto ai lavori. Perché, conti alla mano, se si controllano gli accessi ai paesi di destinazione ci si accorge che il numero dei giovani in fuga è tre volte più alto di quello aggiornato nei computer italiani

A dircelo è un recente studio della “Fondazione nord est” insieme allassociazione “Talented Italians in the Uk”: l’ondata migratoria è superiore a quella dell’Italia del primo e secondo ‘900 verso America, Australia e Nord Europa.

Certa dirigenza di stato minimizza, asserendo che “è la storia demografica di un paese sempre abituato a convivere con l’emigrazione”. L’Istat riporta che, “nel periodo compreso tra il 2011 e il 2021 sono stati 377mila gli italiani tra i 20 e i 34 anni emigrarti verso i principali paesi europei economicamente avanzati”. Cifra che va moltiplicata per tre, fino a 1,3 milioni, se si analizzano i registri d’entrata in Belgio, Gran Bretagna, Romania, Polonia, Francia.

C’è una mancanza di comunicazione tra l’Anagrafe italiani residenti all’estero (Aire) ed i conteggi dell’Istat? Gli addetti ai lavori parlano di linearità nelle registrazioni estere e di farraginosità degli inter-italiani. Ma la disparità nel conteggio è anche dovuta al differente interesse che gli espatriati hanno nel segnalare la propria presenza ai due rispettivi istituti: l’iscrizione all’Aire comporta la perdita di alcuni benefici, come l’assistenza sanitaria italiana, dichiarare il proprio trasferimento all’amministrazione locale è invece imprescindibile per ottenerne altri (contratto di affitto o acquisto primo immobile, contratto o permesso di lavoro, fornitura di elettricità, gas, telefonia fissa e parcheggio auto).

Ma dal 2021 al 2023 i conti raddoppiano le fughe dei giovani, e questo mentre qualcuno parla delle opportunità nel Belpaese.

Mentre il paese muore, qualcuno reputa che il problema consista nel “patriarcato”, nella non accettazione della “gender culture”. I giovani non mettono su famiglia, non fanno figli e scappano perché la classe dirigente ha trasformato l’Italia in un paese per vecchi prepotenti, pervertiti, aridi, avari. Incapaci di donare possibilità di lavoro alla gente normale.

Aggiornato il 27 novembre 2023 alle ore 11:57