Nel rispondere alle domande sottopostemi da BeeMagazine, ritengo doverosa una mia premessa. Il Consiglio nazionale del Partito liberale italiano del 1983, ad inizio legislatura, fu chiamato a decidere se partecipare o no alla svolta politica del primo governo presieduto da un socialista, il segretario stesso del Psi. Vi furono presentate tre mozioni. La prima di “Democrazia liberale”, firmata Malagodi e Bozzi, che approvava l’azione della segreteria per entrare nella maggioranza e nel governo, ebbe 86 voti. La seconda di “Autonomia liberale”, firmata Sterpa e Rossi, che, senza opporsi a tale partecipazione, poneva delle condizioni, ebbe 14 voti. La terza, scritta e firmata da me, ebbe solo il mio voto. Nella mozione e nell’illustrazione argomentavo le ragioni storiche e politiche, per le quali il Pli non dovesse entrare né nella maggioranza né nel Governo Craxi.
Chi avesse la curiosità di riandare a quell’importante dibattito, potrebbe soddisfarla leggendone il resoconto su “L’Opinione”, 6 settembre 1983. Allegai a mio sostegno e conforto anche il celeberrimo discorso che Benedetto Croce tenne in Senato il 24 maggio del 1929 sui Patti Lateranensi. Notai anch’io che coloro i quali si compiacevano di vedere nel governo socialista in gestazione un bell’atto di “fine arte politica” mettevano in pratica il “trito detto che Parigi val bene una messa”. Mi sento di dire che con il Governo Craxi il Pli non andò a Parigi né valeva la pena ascoltare la messa per andarci. Tra l’altro aggiunsi che, con il Pli nella maggioranza, mentre il coefficiente liberale del governo sarebbe stato impalpabile quanto incerto, l’opposizione genuinamente liberale avrebbe rischiato seriamente di scomparire quasi. Non è forse accaduto?
1 ‒ La novità del Governo Craxi, riguardo alla persona, consistette nel fatto che il presidente fosse Craxi stesso, un politico puro, volitivo fino all’improntitudine, innovatore alla felpata tradizione presidenziale dei democristiani; riguardo alla politica, nel fatto che il Governo fosse una sorta di riedizione del Centrismo fuori tempo, fuori luogo, fuori bersaglio. Craxi pareva anticomunista come De Gasperi, ma non lo era allo stesso modo, perché era sì antimarxista ma con il Pci amministrava mezz’Italia, per così dire, attraverso gli enti locali. Vi faceva maggioranza assieme in regioni, province, comuni, relegando all’opposizione i partiti della maggioranza con i quali aveva formato il Governo.
2,3 ‒ Non considero il “caso Sigonella” una gloria craxiana e dunque neppure italiana. Fu una tronfia e gratuita esibizione di forza contro l’alleato americano che inseguiva i terroristi assassini del suo connazionale Leon Klinghoffer, ebreo e paraplegico, ammazzato brutalmente “perché ebreo”. In questo, gli ultimi fatti di Palestina sono analoghi fuorché nelle dimensioni del crimine: terroristi antisemiti che infieriscono su israeliani “perché ebrei”.
4,5 ‒ La “Grande Riforma” esprimeva per la prima volta al massimo livello l’esigenza, sottaciuta per ossequio al mito resistenziale, che la “Costituzione più bella del mondo” avesse tuttavia bisogno di chirurgia costituzionale. Resta il dubbio che fosse destinata meno all’estetica della Carta che all’interesse di Craxi, che cercava mezzi politici e istituzionali per allargarsi. Come direbbe un napoletano, Craxi era entrato a Palazzo Chigi di fianco ma voleva rimanerci di prospetto.
La sua critica delle lungaggini e delle inconcludenze del Parlamento era fondata, ma il Parlamento fa quello che gli fanno fare i parlamentari ed i partiti, i quali hanno un controllo ferreo sulle decisioni sostanziali delle Camere. Le iniziative estemporanee dei parlamentari sono facilmente biasimabili ma possono essere evitate con acconce modifiche costituzionali e regolamentari, alcune delle quali Craxi indicò e propiziò. Il difetto della “Grande Riforma” consisteva nel fatto che fosse “grande”. Craxi e tanti riformatori costituzionali dopo di lui hanno fallito perché allergici ai ritocchi graduali e minimi, indispensabili quanto più riferiti alle massime istituzioni.
6 ‒ Il “consiglio di Gabinetto” e analoghi istituti sono addirittura indispensabili per il buon andamento dell’azione di governo. Troppe volte assistiamo a confusioni, ripensamenti, impreparazioni, dilettantismi affiorare e talvolta esplodere persino nelle riunioni del Consiglio dei ministri: sono tutti l’esantema di governi che procedono prescindendo dall’einaudiano “conoscere per deliberare”. Come può un presidente del Consiglio “dirigere la politica generale del Governo e mantenere l’indirizzo politico ed amministrativo” (art. 95 Costituzione) senza che il dossier da decidere sia stato vagliato in ciascun aspetto e disinnescato preventivamente da posizioni politiche irreconciliabili.
7,8 ‒ I rapporti tra Craxi e Berlinguer erano pessimi perché, lasciatemi la metafora, erano due mastini affamati che mangiavano dalla stessa ciotola. I comunisti erano cambiati ma lontani dal punto d’arrivo raggiunto dopo la caduta del Muro e del bolscevismo sovietico (1989-91). Non erano fatti per intendersi. L’uno aveva preso a cornate il marxismo-leninismo, l’altro difendeva la via togliattiana al socialismo. Craxi era fin troppo “realista”, un machiavellico orecchiante. Berlinguer era l’ipocrita apologeta di una “questione morale” presentata come trave negli occhi altrui e pagliuzza nei propri. A parte lo stile di vita, agli antipodi evidentemente, anche lo stile politico di Craxi era anti-berlingueriano. Berlinguer coltivava una persistente etica consociativa in precedenza sublimata nella proposta esplicita del “compromesso storico”, il cui senso implicito era schiacciare il craxismo. Craxi la temeva intimamente e nei fatti l’avversava per non esserne schiacciato. Ma un difetto li accomunava: un certo terzomondismo, non soltanto di maniera, che affondava le radici nelle cause di popoli apparentemente mossi da un socialismo dichiarato più che praticato.
9,10 ‒ L’atto di Governo più significativo, di portata storica, fu il decreto sul taglio della scala mobile. Poi la vittoria nel referendum del 1985, che tentava di abrogare il taglio, inflisse al Pci e alla caudataria Cgil la più bruciante sconfitta proprio “a sinistra”, dimostrando che il Governo della Repubblica, prima estraneo o rattenuto per motivi elettorali connessi ad una sorta di “super Costituzione” giuslavoristica, poteva intervenire in materia di lavoro, sindacati, patti sociali, nel superiore interesse della nazione. Gli accordi sindacali tra le parti sociali, per decenni, erano così intangibili che in Parlamento passò pure, nel corpo delle leggi che li “recepivano”, qualche errore di grammatica e sintassi, inemendabile persino nella forma “perché frutto di accordi sindacali”.
Aggiornato il 21 novembre 2023 alle ore 12:13