E così vengo a sapere che a Terni entrerà in vigore la cosiddetta “Dittatura Democratica”. Al che, di primo acchito, ho subito pensato ad un ossimoro, cioè a qualcosa tipo “ghiaccio bollente” oppure “morto vivente”.

Insomma, una figura retorica molte volte fine a se stessa, un gioco lessicale per suggellare la propria abilità con la pratica dell’idioma italico. In realtà, se proprio volessimo dare sostanza al significato dell’espressione, l’unica dittatura democratica che ho fin qui riscontrato è quella legata al politicamente corretto, ovverosia ad una forma latente, sebbene fortemente pervasiva, di condizionamento culturale e comportamentale imposta da taluni ambienti definibili liberal o più semplicemente progressisti capaci, per l’appunto, di influenzare il linguaggio sociale mediante l’uso di una grammatica selezionata secondo criteri connessi al perbenismo e all’ossequioso rispetto verso le capillari specificità identitarie. E qui, parafrasando George Orwell, potremmo sentenziare che, per quanto tutte le identità siano dignitosamente pari, ve n’è qualcuna più dignitosa delle altre. Tipo quella più vicina a taluni ambienti politico-culturali che potremmo definire – per semplificare – prossimi alla sinistra.

Però, ecco, si diceva di Terni. Qui la dittatura democratica è una roba un po’ così. Un’altra variante della “forma mentis” ispirata dal dadaismo più anarchico e da un dilettantismo politico come non se ne vedeva dai tempi di Paolo Cevoli, sindaco dell’immaginaria e mitica cittadina di Roncofritto, mattatore del Zelig che fu. Si trattava di cabaret. A Terni invece non saprei, ma di certo la situazione rimanda ad una di quelle commedie pecorecce nelle quali il riso, ad un certo punto, viene soppiantato dallo sgomento per lo squallore generale.

Aggiornato il 27 ottobre 2023 alle ore 13:30