No, non ci pagheranno le pensioni

La figura dell’immigrato che prende sulle spalle – e si sobbarca – il welfare italiano, non solo non trova riscontro nei dati ma nella realtà si verifica esattamente il contrario: sono gli immigrati che gravano sulle spalle dei contribuenti italiani. I motivi risiedono nel fatto che la tipologia di immigrazione che arriva nel nostro Paese è di basso profilo. Anzi, di nessun profilo: poco o per nulla scolarizzata. In sintesi, per nulla skillata, per usare un brutto inglesismo.

Così, il tasso di disoccupazione tra gli immigrati è superiore del 35 per cento rispetto alla media dei disoccupati italiani (dati Istat) e anche il livello delle retribuzioni è mediamente molto più basso: infatti, la retribuzione media degli italiani è di 30mila euro lordi annui mentre quella degli immigrati è di appena 13mila euro lordi, cioè meno del 50 per cento. Ciò ha rilevanti conseguenze. Infatti, il basso livello dei redditi degli stranieri comporta che non versano le imposte e non contribuiscono al sostegno della fiscalità generale. Inoltre, avendo nuclei familiari numerosi (hanno anche la possibilità di autocertificare i figli che vivono all’estero, circostanza molto difficile da verificare), ciò consente delle elevate detrazioni fiscali e la percezione di importi cospicui per gli assegni familiari, l’accesso prioritario rispetto agli italiani a molte altre integrazioni al reddito e in natura, quali i contributi all’affitto, gli alloggi popolari, gli asili nido. Il che significa una differenza tra quanto versano e quanto usufruiscono per titoli di sanità e di altri servizi e assistenze, con uscite di circa 16 miliardi a carico del bilancio pubblico: una cifra considerevole che impatta negativamente sui conti dello Stato. Da ciò si evince quanto sia falsa e infondata la tesi che “gli immigrati ci pagano le pensioni”, semmai sono un onere rilevante.

Tra l’altro, c’è da osservare che gli immigrati si avvalgono del loro diritto di inviare nei loro Paesi di provenienza i soldi guadagnati, per importi considerevoli, circa 5 miliardi l’anno, che vengono distratti dal mercato. Cioè, non vengono spesi nel territorio italiano e nella sua economia. Bensì, sono inviati all’estero, contribuendo, seppur legittimamente, a gravare sull’economia italiana. Inoltre, è il caso di ricordare che l’immigrato che fa ritorno nel proprio Paese, o in un altro che abbia stipulato accordi bilaterali con l’Italia, ha diritto di chiedere i trasferimenti dei contributi versati in tale Stato.

Tutto quanto sopra esposto è necessario per evidenziare che l’Italia deve esercitare il rispetto del suo Stato di diritto, che impone di respingere l’immigrazione illegale e di selezionare quella legale in base alle proprie effettive necessità, sulla scorta delle offerte di lavoro. In Italia abbiamo 6 milioni di abili al lavoro senza un impiego. Tra queste file si possono senza dubbio trovare e formare 600mila addetti sia per la nostra industria che per la nostra agricoltura. Se si possono formare degli immigrati privi di studio e di competenze – e che neppure conoscono la nostra lingua – a maggior ragione si può formare il 10 per cento dei 6 milioni di italiani privi di lavoro.

Tutte le nazioni del mondo, circa l’ingresso degli immigrati, pretendono il possesso preventivo di un contratto di lavoro: ad esempio Regno Unito, Canada, Usa, Australia hanno delle liste di personale e delle relative specializzazioni o abilità richieste. Si può aderire online, se si hanno i requisiti ricercati, e partecipare a un’intervista o a un colloquio da remoto in videoconferenza. Anche l’Italia ha simili liste quantificate in quote. Come mai coloro che giungono sui barconi, tutti dotati di cellulare, invece di farsi traghettare dalle Ong non accedono alle liste del Ministero Interno e si mettono in contatto con i datori di lavoro, per un colloquio online? Non hanno i requisiti? Allora non possono entrare.

Evidentemente, non si vuole usare questo metodo trasparente e lineare, attraverso il quale tutto rimane tracciato – identità e provenienza – perché, forse, ci sono interessi per favorire l’ingresso illegale di migranti, che potrebbe indurre a un sistema di fondi e contributi che potrebbero arricchire organizzazioni e soggetti coinvolti nel miliardario affare della cosiddetta accoglienza.

Solo in Italia si consente l’ingresso di stranieri che non sono in grado di mantenersi ed entrano senza alcun reddito o patrimonio. Non entrano investitori o lavoratori ma soggetti da assistere a carico del welfare italiano. Così, mentre abbiamo una emorragia di lavoratori qualificati, attiriamo immigrati privi di qualunque competenza e reddito. In qualsiasi Paese del mondo, se vuoi ottenere il permesso di soggiorno, devi dimostrare entrate proprie che ti rendano più che autosufficiente: si va dai 20mila euro della Thailandia, alle 30mila sterline del Regno Unito fino a importi molto superiori, come in Australia.

Ma se l’immigrato non è autosufficiente, non hai i requisiti per accedere ai cosiddetti “sostegni al reddito” o “integrazioni del reddito”: alloggi popolari, sussidi, assegni familiari, contributi affitto, maternità, asili nido. Tutte erogazioni in denaro o in natura finalizzate, appunto, a integrare un reddito ritenuto non sufficiente per sopravvivere, e quindi riservate agli indigenti. Inoltre, la  non autosufficienza fa perdere  il permesso di soggiorno e si deve essere rimpatriati. Il meccanismo è chiaro e non si sfugge: permesso di soggiorno = incompatibile con “non autosufficienza”; autosufficienza = incompatibile con sostegni al reddito (sussidi).

Il motivo per cui gli altri Paesi si comportano così è chiaro: intendono attrarre immigrati che vogliono scambiare lavoro in cambio di una retribuzione, non una immigrazione finalizzata allo sfruttamento dello Stato sociale di un altro Stato da parte di soggetti che hanno necessità di essere assistiti, in quanto non economicamente autosufficienti.

Senza questa clausola di salvaguardia il Paese si sta trasformando in una sorta di bancomat al servizio delle popolazioni mondiali bisognose, rendendo insostenibile la spesa pubblica, il welfare e l’equilibrio dei conti pubblici. In ogni nazione l’immigrazione non è mai un atto unilaterale imposto da chi immigra, ma si fonda su un accordo tra chi accoglie e chi vuole essere accolto. Senza accordo, l’immigrazione illegale è un atto che viola gli equilibri di una comunità e, in grandi numeri, è un atto di aggressione.

Aggiornato il 28 settembre 2023 alle ore 10:03