Giorgio Napolitano è stato un comunista che si presentava bene. Da sempre vestito in maniera impeccabile, sin da giovane appariva più un lord inglese piuttosto che un discepolo di Marx. Ed in virtù di tale estetica, cosi ossimorica rispetto al suo credo dottrinario, oltre che per il suo impeccabile idioma anglosassone, Napolitano era divenuto, a partire dagli anni Settanta, una sorta di ambasciatore del Partito comunista italiano, ben accolto perfino Oltreoceano, laddove il socialismo reale venne soppiantato a forza di un sano empirismo impastato con il buon senso e la voglia di fare dei singoli individui.

Il nostro amava definirsi un migliorista, termine che stava a designare i riformisti ante-litteram in un Paese, quale il nostro, dove il primo vero riformista a sinistra si sarebbe incarnato nella figura di Bettino Craxi, guarda caso ostracizzato in primo luogo proprio dal partito di Napolitano. Non solo. Ora che la storia è riuscita a scolpire in maniera sufficientemente chiara le pagine chiare e le pagine scure del Novecento europeo, leggere di un “migliorista” che non solo non riuscì, anzi, che non tentò nemmeno di intaccare l’architettura concettuale progenitrice di distopie proletarie – per dire: qui in Italia non c’è mai stata una Bad Godesberg – ma che si guardò bene perfino dal denunciare in diretta le mattanze sovietiche, cambogiane, cubane, cinesi e via discorrendo, bè, appare quanto mai surreale.

Migliorista, appunto. Tanto da diventare Presidente della Repubblica, lui comunista, quando negli ultimi decenni pare un’eresia il solo ipotizzare un “moderato” – chiedo venia per l’uso di questo vocabolo così povero di contenuti – alla guida del Quirinale. Per altro la sua nomina, fortemente caratterizzata in termini ideologici, e quindi particolarmente divisiva, non solo si materializzò solamente al quarto scrutinio, ma il tutto avvenne con un Paese elettoralmente diviso a metà e all’indomani di una vittoria del centrosinistra prodiano che ottenne una (risicata) maggioranza parlamentare nonostante il suffragio universale segnò qualche centinaia di migliaia di voti in favore della coalizione berlusconiana. Ebbene, a fronte di questa condizione di perfetto equilibrio, l’allora Unione si accaparrò, oltre al Quirinale, anche le presidenze di Camera e Senato. Per di più la prima venne assegnata addirittura al segretario di Rifondazione Comunista. Ma torniamo a Napolitano.

Molti, in queste ore, amano ricordare che egli sia stato il primo capo dello Stato ad essere rieletto per un secondo mandato, non evidenziando però che tale scelta fu dettata non tanto da un’approvazione unanime ed acritica del suo operato, piuttosto da una condizione – che si sarebbe poi rivelata strutturale – di indebolimento generale del sistema partitico italiano. Da berlusconiano quale sono avrei inoltre gioco facile nel liquidare il ruolo istituzionale, quantomeno opaco, avuto da Napolitano dapprima nell’avvio della guerra franco-statunitense alla Libia di Gheddafi e, vieppiù, nella fine dell’esperienza governativa berlusconiana con la nomina al laticlavio – tempisticamente sospetta – di Mario Monti senza un apparente perché che perdura a distanza di un decennio ed oltre. Un perché orfano di risposte nonostante le rivelazioni che nel tempo vennero fornite da protagonisti assoluti della politica internazionale durante gli anni ’10 del ventunesimo secolo, e che sostanzialmente hanno inchiodato l’Aristocratico Rosso alle sue responsabilità.

Tuttavia, arrivato fin qui, e a dispetto di tutto quanto scritto finora nelle righe precedenti, riconosco la caratura culturale di Napolitano, la sua profondità di analisi anche nelle situazioni più complesse, la sua visione geopolitica capace di includere dettagli apparentemente insignificanti eppure, alla fine dei conti, essenziali per la comprensione dell’intero scenario internazionale. Insomma, un livello intellettuale che, per gli attuali vertici del Partito Democratico, si colloca in una dimensione trascendente più che sideralmente distante.

Aggiornato il 25 settembre 2023 alle ore 12:39