Gaetano Salvemini, 150 anni dopo

Non il golpe che ha rovesciato, cinquant’anni fa in Cile, Salvador Allende; e neppure la strage alle Twin Towers a New York e sul Pentagono, 22 anni fa. Ne parlano e scrivono altri. È un altro anniversario, quello che qui si ricorda: Gaetano Salvemini, storico, meridionalista, militante socialista e radicale. C’è bisogno di farlo; per una sorta di paradosso, la dimostrazione viene proprio dall’unico che oggi lo ricorda. Libero, il quotidiano diretto da Mario Sechi, pubblica un articolo di Francesco Carella dal titolo “Il centocinquantenario dimenticato. Salvemini pensatore scomodo”.

Meritorio ricordo, necessario si diceva. Salvemini nasce a Molfetta l’8 settembre 1873; e muore a Sorrento il 6 settembre 1957. Sono trascorsi 150 anni dalla nascita, 66 anni dalla morte.

Conta ricordarlo Salvemini. Il che non accade. Perché... Ha ragione Carella: “Non si può non rimanere perplessi per la scarsa attenzione ricevuta, in occasione del centocinquantenario della nascita da una delle figure di maggior prestigio del nostro Novecento”.

Carella individua la ragione di questo ostracismo e indifferenza: “A Salvemini una certa élite culturale non ha mai perdonato ciò che lo storico pugliese disse nel 1935: ‘Nonostante le differenze fascismo e comunismo hanno la medesima essenza: negano la libertà’”.

In effetti Salvemini paga l’essere stato per tutta la vita rigoroso e inflessibile antifascista e anticomunista; non solo: era anche anticlericale, irriducibilmente laico. Si capisce bene che tutto questo si paga, e Salvemini l’ha pagato con gli interessi. Come hanno poi pagato molti dei suoi figli politici, come Ernesto Rossi, come Mario Pannunzio; come il Partito Radicale.

Su Il Mondo di Pannunzio, il 21 febbraio 1953 Salvemini pubblica un articolo, “La pelle di zigrino”.

Scrive: “Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti), ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. È il ghiacciaio che si chiamò ‘liberalismo’, ‘democrazia’, ‘socialismo’”.

Un esser liberali come Camillo Benso conte di Cavour o John Stuart Mill; ma anche democratici: perché si vuole estendere la democrazia agli uomini e donne di tutte le classi sociali. “Socialisti o socialdemocratici, perché si vuole lavorare alla costruzione di un assetto sociale nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo né può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati. Un socialismo che si apparenta con i fabiani inglesi ai riformisti italiani alla Turati, alla Bissolati e alla Battisti, e non con quello degli arcivescovi, vescovi, parroci e sacrestani della Chiesa stalinista”.

Ecco spiegato perché, trascorsi centocinquant’anni, Salvemini viene poco o nulla ricordato.

Aggiornato il 12 settembre 2023 alle ore 19:07