Piero Gobetti, un classista sedicente liberale

Tra i tanti danni causati dal comunismo e da tutte quelle nazioni in cui è stato applicato, vi è anche quello di aver inquinato e storpiato la semanticità del termine liberalismo con la caduta del socialismo reale. Invero, tutte quelle forze politiche e correnti culturali della sinistra italiana che si ispiravano al marxismo e che vedevano nell’Unione Sovietica la loro onirica patria cui ispirarsi e da cui ricevere protezione politica, nonché economica, con la caduta della medesima, si ritrovarono spauriti e persi, senza alcun paradigma valoriale a cui far riferimento e senza alcun organismo o apparato politico in cui identificarsi a livello internazionale. I cosiddetti “nipoti di Stalin” o post-marxisti, oltre a cambiare diversi nomi al loro partito di maggior rappresentanza politica, iniziarono ad appropriarsi di concetti e principi che non gli erano mai appartenuti e che avevano contrastato anche violentemente e che per la loro forma mentis non erano in grado neanche di comprendere, se non travisandoli.

Dopo essersi appropriati nell’onomastica partitica dell’aggettivo “democratico”, ebbero l’ardire ignominioso di provare ad accreditarsi come “liberali” e cominciarono a parlare di un sedicente liberalismo di matrice socialista. Proprio in questo periodo storico è iniziata la rincorsa semantica a creare definizioni tanto astruse quanto inverosimili, riassumibili in surreali ossimori come liberalsocialismo. Per la verità, il liberalismo è stato sempre viziato ab origine da un bipolare e antitetico significato, uno di matrice continentale-europea e l’altro anglosassone. Il primo significato nasce dalla Rivoluzione francese con l’interpretazione illuministica di matrice giacobina, che vedeva nella ragione il dogma dell’infallibilità. Invece, il secondo significato trae origine dall’evoluzione storico-culturale del mondo inglese, cominciando con il riconoscimento da parte del re Giovanni “senza terra” (appartenente alla famiglia reale dei Plantageneti) dei diritti della nobiltà inglese con la famosa Magna Carta ed in seguito con l’applicazione del principio garantista “Habeas corpus”.

Fino ad arrivare alla prima rivoluzione della storia contro una monarchia, ossia contro re Carlo I Stuart, che venne decapitato e con la quale si declinarono le istanze illuministiche di matrice inglese. Il liberalismo anglosassone al contrario di quello continentale, che si ispirava ai principi illuministici razionalistici, si fonda su una concezione illuministica per cui la ragione non è infallibile e che proprio grazie alla sua natura fallace, tramite l’esperienza, avviene l’evoluzione, applicando in tal modo la metodologia scientifica dell’epistemologia, che il filosofo Karl Popper ha declinato magistralmente nel sua teoria del “falsificazionismo”, ossia che ogni verità è valida se può essere confutata da un’altra futura meno imperfetta della precedente. La negazione dell’assolutezza di una verità rende l’uomo libero dal dogma intollerante dell’idealismo, rendendo la vita umana una “società aperta” al suo progresso e alla sua evoluzione, con la sua continua correzione grazie all’esperienza. Come sosteneva l’illuminante moralista scozzese David Hume, “dalle proposizioni descrittive non si possono ricavare proposizioni prescrittive”, perché non esiste il concetto di assoluto, in quanto la vita coincide con l’esperienza e la scoperta continua.

La succitata dicotomia ha origini molto lontane, risalenti all’antica Grecia dove l’antesignano “liberale” Aristotele contrastava concettualmente con il pragmatismo della sua opera Tà Politiká l’idealismo dogmatico di Platone, che nella sua opera La Repubblica descriveva i prodromi di quella società oligarchica che, molti secoli dopo, nell’Unione Sovietica avrebbe trovato l’applicazione reale. Tornando al tema in oggetto, ossia la semanticità veritiera del termine liberalismo, nella storia del pensiero italiano abbiamo avuti molteplici esempi di intellettuali che hanno confuso il concetto liberale con quello idealista. Il più illustre fu sicuramente il celebre e raffinato filosofo ed esteta Benedetto Croce, che nella sua matrice culturale hegeliana non comprendeva come la libertà economica fosse alla base di ogni libertà individuale.

Infatti, il suo collega del partito liberale italiano, l’economista nonché emerito presidente della Repubblica Luigi Einaudi, aveva pragmaticamente ben compreso cosa fosse realmente il liberalismo e quanto esso si identificasse nella libertà economica e quindi nel diritto di proprietà, perché “per essere liberi di, bisogna essere liberi da”, ossia emanciparsi economicamente da un regime collettivista, portatore nocivo di violenza fisica ed ideologica. Sull’essenzialità della libertà economica si sviluppò un’accesa polemica fra i due, che non fece altro che evidenziare e far emergere ulteriormente quanto Croce fosse un idealista e non un liberale, almeno nel significato anglosassone precedentemente enucleato.

In Italia, dopo Croce, l’altro protagonista di questo inquinamento semantico del liberalismo fu Piero Gobetti, vissuto nella prima metà del Novecento e ucciso a quasi 25 anni a causa delle conseguenze generate dalle percosse subite dallo squadrismo fascista, il cui pensiero, proprio dopo la caduta del comunismo in Unione Sovietica, fu rispolverato e ripreso negli anni novanta dall’intellighenzia post-marxista per iniziare ad accreditarsi come liberale. Piero Gobetti è l’emblema di quella strumentalizzazione politica della sinistra italiana che in tutti modi ha cercato di appropriarsi di un’immagine liberale, esaltando concetti e dottrine politiche di intellettuali che nella sostanza della declinazione del loro pensiero dimostrarono solo di essere semplicemente idealisti e collettivistici.

Difatti, lo pseudo liberalismo gobettiano invera le suggestioni e i valori del comunismo e questo vale per tutti gli intellettuali che per gran parte della loro vita hanno creduto nel comunismo, i quali riprendendo l’opera di Gobetti e riconoscendosi in essa hanno potuto illudersi di accreditarsi come liberali, senza però da un lato perdere il contatto con la tradizione culturale comunista e dall’altro lato senza dover fare un esame di coscienza per il loro passato ideologico-marxista, che è stato causa di tante morti (si annoverano più di 100 milioni) e di povertà e distruzione.

Dall’excursus formativo-culturale di Gobetti emerge quanto egli fu influenzato dalla filosofia idealistico-spiritualistica di Benedetto Croce e successivamente integrata col problemismo sociologico-politico del socialista Gaetano Salvemini. Nel prosieguo, nonostante alcune riserve, Gobetti valutò positivamente il colpo di stato bolscevico compiuto in Russia nell’ottobre del 1917 del calendario giuliano (definito impropriamente rivoluzione, la quale invece avvenne tra il 23 e il 27 febbraio del 1917 del calendario giuliano, grazie ai democratici-borghesi, guidati da Aleksandr Fëdorovič Kerenskij), affascinato dall’opera di Lenin e di Lev Trockij, al punto da affermare, nonostante ritenesse fallito l’esperimento socialista in Russia, che “la rivoluzione russa non è solo nell’esperimento socialista. Là si gettano le basi di uno Stato nuovo. Lenin e Lev Trockij non sono solo dei bolscevichi, sono gli uomini d’azione che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un’anima”, per poi continuare a perdersi in riflessioni tanto irrazionali quanto astruse, in cui sosteneva che “l’opera di Lenin e di Trockij rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo. È morto lo zarismo e la mentalità zarista. La Russia si eleva al livello della civiltà dei popoli occidentali”.

Quindi, per Gobetti il liberalismo rappresenta un movimento rivoluzionario-demiurgico, funzionale alla distruzione di uno stato sociale e politico di arretratezza e stagnazione per avviare un processo di modernizzazione dello stesso. Da questa visionaria concezione gobettiana si deduce quanto esso non avesse nulla a che fare con il liberalismo, visto che non considerava in alcun modo i suoi principi fondanti come le garanzie delle libertà individuali, tramite lo Stato costituzionale. Durante lo storico biennio “rosso” 1919-1920, Piero Gobetti iniziò a subire l’incisiva influenza del pensiero politico di Antonio Gramsci, dal cui giornale L’Ordine Nuovo rimane sempre più affascinato, tant’è che lo stesso Gramsci gli affidò la critica teatrale, in virtù della stima e della consonanza spirituale, nonché ideale che vigeva fra loro. L’apice della sua delirante e insensata visione di pseudo liberalismo venne raggiunto quando Gobetti, in riferimento alla violenza commessa dai bolscevichi durante il loro colpo di stato in Russia, chiosò che “la violenza si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla, e gli altri la tollerino. E questo esercitarla e questo tollerarla sono l’espressione esterna di un fatto interiore che ha la sua radice negli spiriti. In Russia il fatto che spiega è precisamente l’adesione degli animi al governo dei Soviet”.

Da queste ultime affermazioni si evince quanto Piero Gobetti fosse sorprendentemente illiberale e quanto esse sarebbero poi risultate grottescamente patetiche, quando egli stesso rimase vittima di quelle violenze che lui esaltava riferendosi ai bolscevichi, ma che nel suo caso specifico furono compiute dagli squadristi fascisti. Nel pensiero gobettiano, l’influenza di Gramsci emerge soprattutto dalla sua opera principale intitolata La rivoluzione liberale, in cui l’autore afferma “il movimento operaio è stato in questi anni il primo movimento laico d’Italia, il solo capace di recare alla sua ultima logica il valore rivoluzionario moderno dello Stato e di esprimere la sua idealità religiosa anticattolica, negatrice di tutte le Chiese”.

Per Gobetti, i capitalisti non erano più in grado di essere validi risparmiatori e imprenditori e dovevano essere sostituiti dalla classe operaia, che con la sua organizzazione spontanea ed autonoma avrebbe potuto salvare la civiltà capitalistica, perché, secondo la sua ingenua e infantile visione, la classe operaia sarebbe stata l’unica classe capace di preservare il sistema borghese, sostituendosi alla borghesia corrotta del suo tempo. Da quanto finora esposto si deduce quanto il pensiero utopistico di Piero Gobetti si fondasse su presupposti assai illiberali e quanto ciò derivasse anche e non solo dalla sua giovane età, che poco più ventenne non poteva avere quella saggezza che solo l’esperienza e la maturità possono manifestare.

La storia culturale di Gobetti si riassume in un arco temporale di quasi 7 anni, dove elabora un coacervo di teorie caotiche, finendo solo per sfociare in una confusionaria idea mortificante del liberalismo a vantaggio dell’illiberale concezione di lotta di classe e di rivoluzione proletaria. Ciò che Gobetti non fu in grado di comprendere (la sua immaturità contribuì in questa infantile miopia) era che il liberalismo di allora andava riformato con un’attenzione maggiore alle istanze sociali, ma sempre nel solco fondante del interclassismo, rispettando rigorosamente le garanzie individuali e le istituzioni liberali. Perché il principio liberale fondamentale che Piero Gobetti ha colpevolmente negato è che la violenza da chiunque venga compiuta (destra o sinistra) è nemica delle libertà individuali e delle garanzie di civiltà su cui il liberalismo fonda il suo pensiero, insieme al principio del diritto assoluto individuale della libertà economica.

“Per essere liberi di, bisogna essere liberi da ogni violenza fisica ed ideologica”

(F. V. Bonanni Saraceno)

Aggiornato il 01 settembre 2023 alle ore 12:34