King: pastore dei diritti senza il bastone del politicamente corretto

Con la riscoperta di Martin Luther King è sempre tempo per fare Pasqua: è sempre tempo per attraversarsi e attraversare il mare delle schiavitù o delle dipendenze intellettive a cui ci si sedimenta senza più vitale dialettica, senza più animo vibrante. Con King è sempre tempo di Pasqua, malgrado da quel 4 aprile 1968, dalla sua uccisione, non sia risorto fisicamente il corpo, ma sia risorta la battaglia, per un mondo più giusto. King, il pastore cristiano alla ricerca di una speranza grande, così grande da poter essere condivisa, senza vendetta, tra tutti, senza predomini e senza discriminazioni al contrario. Ricordare King in questo tempo, a qualche annetto dalla risonanza mediatica mondiale del movimento Black Lives Matter, è un segno di ordine, una stella polare da rimarcare per ogni futura battaglia che voglia ispirarsi sempre e solo all’amore anche di fronte all’odio, senza mai scadere in fanatismi o in culti devoti alla rimozione di statue. Con King vogliamo riscoprire la bellezza del fare i conti con ogni inevitabile paura nel vivere. Con King vogliamo ispirarci per le difese, mai di mero ufficio, nei processi del divenire della civiltà umana, luogo per luogo e tempo per tempo, senza facili messianismi o escatologie di maniera ideologica. Con King vogliamo affermare un’unica umanità abbracciata in una rinascente pangea morale, per uno sviluppo sociale che non appiattisca mai la ricchezza delle diversità di etnia, genere e classe entro i recinti illusionisti di scontri con slogan senza dialettica, o di iniqui riequilibri basati su discriminazioni al contrario.

Uccisa tragicamente la persona di Martin Luther King, il 4 aprile 1968 in un attentato a Memphis, in Tennessee, lo spirito di King vive, e vivrà per sempre. Le sue parole ispirano, sconvolgono, travolgono, sollevano gli animi odierni di chi esiste, vive, resiste, insiste, tra paure e malgrado le paure, tra convinzioni e ideazioni radicate nelle ricerche esistenziali di ciascuno, dentro ed oltre le quotidianità. In un suo sermone pubblicato con il titolo Antidoti per la paura, in un’opera a sua volta intitolata Un dono d’amore, possiamo entrare nel pensiero del celebre pastore nero, tra analisi intersezionali della paura e vie esistenziali per affrontarla e dominarla, proficuamente. Ai tempi della post-pandemia questo sermone può aiutare molti, molto più di quanto si possa credere, molto più di quanto possa esser d’aiuto la caotica narrativa ancora controversa sulla gestione della salute mentale ai tempi del Covid-19, spesso scartata dalle agende amministrative senza criterio, o senza il giusto ordine di priorità.

King ha sostenuto che i timori eccessivi sono emotivamente dannosi e psicologicamente distruttivi. Ha ricordato che il pedagogo italiano naturalizzato Angelo Patri ha detto che l’istruzione consiste “nell’aver paura al momento giusto”. Se la gente perdesse la capacità di avere paura, in un certo senso, sarebbe privata anche della capacità di progredire. King ricordava infatti come la paura del buio ha portato alla scoperta del segreto dell’elettricità, la paura del dolore ai progressi della scienza medica, la paura dell’ignoranza alla costruzione di grandi istituti scolastici, la paura della guerra all’origine delle Nazioni Unite. King ricordava anche che Freud aveva raccontato di una persona che in una giungla africana aveva giustamente paura dei serpenti, e di una persona che invece era ossessivamente terrorizzata di avere i serpenti sotto il tappeto di casa sua in città. Da questo riferimento a Sigmund Freud, King è pervenuto all’idea per cui la paura normale ci protegge e ci spinge a migliorare il benessere individuale e collettivo, mentre quella anormale ci paralizza avvelenando la nostra interiorità.

King si è anche sforzato di capire come si può affrontare la paura. Occorre affrontare le paure con fermezza chiedendoci con onestà il perché di esse dentro di noi. Il più delle volte si può trattare di paure derivanti da bisogni residui o preoccupazioni infantili. Facendo baciare da una nostra luce le paure, attraverso l’osservazione di esse in modo onesto, potremmo scoprire che esse spesso sono più immaginarie che reali, fondate su un uso improprio della immaginazione. Non sempre è così: lo diceva anche King. Le paure, anzitutto quelle fondate sulla realtà, possono essere trattate e affrontate con l’antidoto del coraggio. King ricordava Platone, il quale riteneva che il coraggio fosse l’elemento dell’anima che colma il divario tra la ragione e il desiderio.

Il coraggio, quale capacità della mente di vincere la paura, è per King antitetico alla viltà. Il pastore ha infatti spesso predicato che il coraggio è la decisione di andare avanti nonostante gli ostacoli e le situazioni che generano la paura. King non ha solo predicato il coraggio, lo ha messo in pratica pur nei tanti dissidi dentro e fuori di lui. Per il celebre presidente, pastore, attivista per i diritti civili degli afroamericani, la viltà consisteva nella “docile resa alle circostanze”.

Il coraggio affronta la paura, e dunque la domina, la viltà la reprime e dunque ne è dominata. I coraggiosi non perdono mai la gioia di vivere, anche se la loro vita è priva di gioia, mentre i codardi, sopraffatti dalle incertezze della vita, la perdono. Non dobbiamo mai smettere di costruire sbarramenti di coraggio per tenere a freno le ondate della paura”, aveva detto, scritto e messo in pratica King. L’invito di Martin Luther King era anche quello di distinguere la paura dall’ansia: diversamente dall’ansia, la paura ha un oggetto definito, che può essere affrontato, analizzato, attaccato e se necessario sopportato. Egli ha ricordato che spesso l’oggetto della paura è la paura stessa, la paura di aver paura. In queste distinzioni dimora quindi la differenza tra l’occuparsi di qualcosa di arduo e il preoccuparsi. Del principio di precauzione coloriamo le nostre legislazioni, attualmente, e facciamo bene. Tuttavia, la precauzione in sé deve farsi valvola nella vita ma non schermo per distaccarci dalla vita, altrimenti rischiamo di auto-truffarci con una idea di protezionismo esistenziale che esula da ogni pericolo tutt’intorno effettivamente esistente. La precauzione deve coprire il rischio esistente e solo in alcune aree delle attività umane o degli eventi naturali deve coprire il rischio dell’esistibile, altrimenti l’umanità verrebbe schiacciata da sé stessa: occorre avere sempre in mente il meccanismo logico-empirico dei costi e benefici, oltre che dei beni della vita protetti e proteggibili. Ma ritorniamo al pensiero di King, che molto meglio di chi qui scrive sa mostrarci qualche via per vivere, in queste valli antropiche di mere sopravvivenze cibate di slogan cliccabili.

King ha affrontato i problemi della segregazione razziale e delle guerre mettendoli in relazione anche con la questione della paura. Il combattente nonviolento per i diritti civili nel Novecento americano, argutamente, si è chiesto quale fosse il sistema adottato dall’essere umano per affrontare la paura della guerra. L’evidenza gli ha fatto rispondere che il sistema per lo più adottato era stato purtroppo la corsa agli armamenti, le spese per la difesa schizzate alle stelle con una conseguente declassazione delle imprese non belliche. King ha detto che “Le nazioni hanno creduto che più armamenti avrebbero eliminato la paura, ma questi ultimi purtroppo hanno finito per generale solamente una paura più grande”, e ha aggiunto che “Non le armi, ma l’amore, la comprensione e il buonsenso possono scacciare la paura”, e che “Il problema dell’ingiustizia razziale dev’essere risolto allo stesso modo. La segregazione è rafforzata da timori irrazionali, come la perdita dei privilegi economici, il cambiamento di status sociale, i matrimoni misti e il doversi adattare a situazioni nuove”.

King evidenziava: se i “nostri fratelli bianchi” vogliono vincere queste paure, non devono affidarsi solo al loro impegno nell’amore cristiano “ma anche abbandonarsi all’amore simile a quello di Cristo dei neri nei loro confronti. Solo se noi rimarremo fedeli all’amore e alla nonviolenza, la paura della comunità bianca diminuirà”. King ha fatto l’esempio di un padre con un figlio. Un padre che ha sempre maltrattato il proprio figlio si rende conto che questi, divenuto grande, è più alto di lui. Si chiede incisivamente King: “il figlio sfrutterà forse questo vantaggio fisico per restituirgli le botte ricevute?”. Questa domanda può divenire il sacro-laico punto di congiunzione delle umanità divise nel mondo. Questa domanda può essere la linea di divisione tra chi incendia e abbatte o imbratta statue per fanatismo, e chi organizza marce nonviolente in cui chiedere un sistema securitario che sia equo verso tutti senza più odio. Non occorre una asimmetria al contrario, una opposta predestinazione culturale con nuovi e vecchi discriminati e discriminatori, con nuovi perbenismi, con nuove promozioni culturali di comodo, con riformismi immobili e politicamente corretti, per poi far rimanere sempre il mondo diviso fra mobili degradi periferici e nuovi centri di potere. Il politicamente corretto ai tempi di King ancora non era una occulta dittatura culturale insidiata nelle richieste neo-legislative e nelle promozioni professionali, non poteva ancora esserlo, ed anzi vigevano situazioni di vergognosa segregazione razziale e di genere, segregazioni figlie di culti irrazionali e remotamente coloniali.

Oggi, senza ricordare più il vero spirito delle esperienze di lotta nel Novecento e nei primi anni del nuovo millennio ancora in corso, da più parti si avverte invece un senso di vuoto. Il tentativo di colmare questo vuoto si manifesta talvolta nella furia neo-giacobina del voler cancellare pezzi di cultura, per riequilibrare un qualcosa di brutto che c’è stato e che ancora in maniere diverse c’è con un qualcosa di indefinitamente frammentato, con un nuovo culto che fa tremare il senso vero dell’eguaglianza fra le persone e fra le genti. Occorre infatti considerare il senso della eguaglianza nella sua applicazione concreta. L’eguaglianza intesa in modo retorico, che divide con troppo semplicismo e poca pratica la nuova storia democratica tra progressisti e conservatori, parte da qualche teoria – ora elevata a dominio di comodo – per arrivare ad incidere sulle realtà, nude di per sé stesse di retorica, ed anzi crude nei propri chiaroscuri poco sbandierabili dai media e sui social. Una parte della cultura antirazzista, antisessista, antidiscriminatoria di quest’ultimo biennio, in alcune sue frange metodologicamente estreme nonché in alcuni suoi tratti neo-giacobini e neo-legicentrici, ha mostrato di voler deviare il cammino umanista dei diritti dall’originario spirito di tutela del genere umano quale unità nelle diversità. Lo Stato di diritto ha tradizionalmente riservato al buonsenso e alla legge, nelle misure di volta in volta considerate opportune, la missione quotidiana di tutelare, realizzare e promuovere il principio umano di uguaglianza nella libertà di tutti, senza aprioristicamente suddividere le forme e le risposte di tutela per categorie umane a compartimenti stagno.

A proposito della società di parità tra neri e bianchi, continuando la metafora con il padre e il figlio picchiato poi divenuto fisicamente più alto del padre, King ha scritto che “Un tempo bambino indifeso, il nero è ora cresciuto politicamente, culturalmente ed economicamente: molti bianchi temono la vendetta. Il nero deve dimostrare loro che non hanno niente da temere, perché li perdona ed è disposto a dimenticare il passato”. Nella storia, i giusti sfruttati per tanto tempo, poi, sono chiamati ad essere pietra d’inciampo per fondare un nuovo pezzo di storia nell’amore, senza arrendersi mai durante le schiavitù e durante il tempo delle ingiustizie. Una volta vincitori, i giusti sfruttati, hanno l’onere di non lasciarsi mai deviare dalle prospettive facili dell’odio. I vincitori per rimanere onorati devono rimanere nell’amore per il rigore dell’equità, altrimenti la storia sarebbe un susseguirsi irrazionale di ingiustizie e disequilibri socioculturali.

Ciò vale per tutti “i diversi” al fianco dei quali si è lottato nelle infanzie di ogni fase politica. Non è con lo strumento delle persone-panda-da-proteggere-di-più, non è con lo strumento delle categorie aprioristicamente protette contro ogni disagio che lo Stato di diritto liberale appresta nel migliore dei modi le proprie forme di tutela e promozione in riequilibrio. L’onore e l’orgoglio di chi ha condotto storicamente esistenze dilaniate dalle discriminazioni negatorie e preclusive, invero, non può essere appagato entro i cavilli automatisti ed aprioristici che diversificano libertà, aspettative di giustizia e speranze di stili di vita parificati. La tutela dello Stato di diritto nel liberalismo new age, soprattutto nei Paesi di civil law, non potrà che continuare ad essere generale ed eguale nella lotta contro ogni forma di ingiustizia, divenendo concreta pratica giustiziale con l’ausilio dell’equità applicativa, nel punire chi discrimina ingiustamente e nell’attribuire i giusti benefici a chi, in virtù di peculiari differenze, necessita di attingere dallo Stato con certezza, in scienza, diritto e coscienza.

Ed è su queste sfumature che la lezione esistenziale di King ci dimostra quanto sia giusto ed utile per tutti non scadere mai in ciò che negli ultimi decenni – successivi alla sua morte avvenuta nel 1968 – viene plasticamente definito “dittatura del politicamente corretto”. Questa sensibilità derivava in King anche da una radice cristiana protestante molto forte, ma questa sensibilità si ciba di humanitas, semplicemente, al di là e potenzialmente dentro ogni credo, trasversalmente ed intersezionalmente. King ricordava un passo biblico tratto dai Proverbi 3,19: “Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con intelligenza”. Lasciandosi ispirare da una anziana poverissima e incolta ma straordinariamente intelligente, la cosiddetta Mamma Pollard che seguiva le sue predicazioni, King, nei momenti tragici della sua vita ha ricordato a sé stesso ciò che quella anziana donna gli aveva detto, durante una sera di sconforto nel 1956: “Ma anche se non siamo con te, ci sarà Dio a prendersi cura di te”.

D’altronde, come ha detto lo stesso King, potremmo lasciarci ispirare da un detto molto presente nelle case delle persone devote più anziane: “La paura bussò alla porta: la fede andò ad aprire e non c’era nessuno”. Fede in Dio, e fede nello Stato di diritto, libero e liberale che costruiamo, noi, ogni giorno. Chissà se Martin Luther King, in punto di morte in seguito all’attentato che ce lo ha portato via prematuramente, non ha ripetuto nella sua mente quel “ci sarà Dio a prendersi cura di te”. Sicuramente ora tocca a noi continuare a difendere i diritti civili di tutti, senza lasciarci trasportare dalle ondate social del politicamente scontato che, senza alcun acume critico e senza guardare in faccia le sofferenze vere del nostro tempo, ha solo la faccia pigiata da commerciabili like. Ispiriamoci anche a King, pastore nero dei diritti civili senza il bastone del politicamente corretto.

Aggiornato il 19 luglio 2023 alle ore 17:25