Opinion poll mainstream: sondaggi a perdere

Per John Kenneth Galbraith “l’unica funzione che hanno le previsioni economiche è quella di rendere l’astrologia rispettabile”. Adattando l’aforisma ai sondaggi, si potrebbe citare l’antico detto italico per cui gli Opinion Poll sono dei perfetti stallieri che “attaccano il somaro dove vuole il padrone”. Il primo si identifica, in generale, con l’opinione del “Popolo Bue”, mentre il secondo coincide con il Maître politico di turno. Per capire che le cose stanno proprio così, si può prendere le mosse dallo sfogo pubblico del quotidiano on-line inglese “The Independent” che denuncia senza mezzi termini l’ultimo disastro sondaggistico in ordine di tempo, relativo alle previsioni dell’esito elettorale in Turchia: “Turkey’s election results prove it, we need to rethink political polls”. Elezioni terminate come si sa con l’ampia vittoria di Recep Tayyip Erdoğan al ballottaggio per le Presidenziali, dopo che il suo Partito, l’Akp, aveva già conquistato al primo turno la maggioranza parlamentare ottenendo circa il 45 per cento dei consensi. I sondaggi che davano Erdoğan perdente con ampio margine si sono così rivelati clamorosamente errati, come se invece di cogliere la realtà avessero assecondato i desiderata di una sorta di pensiero politico mainstream occidentale. Da leggersi come segue: il presidente uscente non può che perdere alle elezioni presidenziali del 2023, dato che è interamente sua la responsabilità della “permacrisi” turca. Quest’ultima caratterizzata dalla concomitanza di almeno tre fattori negativi, quali: un’inflazione devastante; la recessione economica; gli effetti della disastrosa gestione del terremoto, da cui sono emerse gravissime responsabilità degli speculatori immobiliari legati al regime di Erdoğan.

Ma, le Presidenziali turche non sono che l’ultimo anello di una lunga catena di fallimenti previsionali in politica, per non parlare di quelli economici in generale, già ferocemente stigmatizzati da Galbraith. In merito ai clamorosi fake degli Opinion Poll, si ricordano gli “sviamenti” sulla Brexit e sulle Presidenziali americane, entrambe avvenuti nel 2016. Più di recente ancora, un’altra figuraccia dei sondaggi (fallibili) ha riguardato le elezioni legislative in Grecia, in cui si pronosticava un testa-a-testa tra il primo ministro in carica, Kyriakos Mītsotakīs, e il suo sfidante Alexīs Tsipras. Peccato che, a urne chiuse, il primo abbia preso il 41 per cento dei voti contro appena il 20 per cento del suo avversario! Un po’ troppo per una dignitosa “forchetta” statistica, che ammette un margine di errore pari a ±5 per cento. Ora, l’accusa di essere uno strumento mainstream rivolta ai “poll” appare fondata a causa del loro notevole impatto socio-politico, dato che (tanto per esemplificare cosa nota) influenzano gli elettori circa il fatto di recarsi o meno alle urne. Altrettanto noti e temuti sono gli effetti dei poll sulle decisioni dei candidati politici in merito a quali argomenti occorra concentrare la propria campagna elettorale per avere successo; senza trascurare poi il loro utilizzo strumentale da parte di editori e produttori televisivi, sempre pronti a imbastire nuove storie e programmi da proporre per l’occasione all’attenzione degli elettori.

Altro fronte ancora più sensibile è l’influenza che determinano i sondaggi sulle decisioni degli investitori internazionali e sui governi stranieri. Molto si è dibattuto a proposito delle pessime performance dei poll nella stima dei risultati elettorali, e una delle risposte più sensate è dovuta a quella circostanza sgradevole che gli inglesi chiamano “weaponisation of polling results”. In pratica, si utilizzano i risultati dei poll come vere e proprie armi contundenti, a danno degli avversari politici! Si dirà: certo, con quel che costano! Altro problema: come fare sondaggi equilibrati in ambienti socio-politici altamente polarizzati? Si citano in merito Ungheria e Turchia, dove le agenzie di polling si dividono equamente tra maggioranza di governo e opposizione. Solo che, nei casi citati, i primi sono favoriti dal fatto che i media della stampa e della radiotelevisione non sono indipendenti, essendo di proprietà di tycoon amici del potere in carica, mentre i loro avversari fanno fatica a stare in piedi e trovare un minimo di finanziamenti necessari alla propria sopravvivenza!

Troppe volte, inoltre, si trascurano le diaspore, davvero fortissime come quella turca: 6,5 milioni di cittadini turchi politicamente attivi vivono all’estero e risulta che a maggio scorso abbiano votato in massa a favore di Erdoğan. Idem per le elezioni del 2020 in Moldavia, in cui i poll non hanno tenuto conto di centinaia di migliaia di cittadini moldavi che risiedono all’estero e sono decisamente antirussi e pro-Ue. E ancora peggio è andata alle elezioni francesi, in cui i sondaggi non hanno tenuto conto dei 13 territori d’Oltremare! Anche il tempo che passa e il modo con cui si continuano a fare i sondaggi hanno un loro notevole peso: oggi, gli opinion poll per interpello telefonico tagliano via il voto giovane, mentre fanno esattamente il contrario quelli condotti on-line, che si perdono lungo il cammino gli elettori più anziani. L’unica via di salvezza sarà pertanto una Ai (Artificial intelligence) collaborativa e algoritmi matematici che favoriscano al massimo la compensazione statistica. La verità di fondo sta nel fatto che a essere radicalmente cambiati (come atteggiamento di base) sono proprio gli elettori!

Decenni fa, il traino alle urne era dato dal peso politico e ideologico dei partiti, che invece oggi sono del tutto fuori causa, dato che il potere (come gli individui che non si sentono più collettività) si è parcellizzato, con i leader nazionali che hanno perduto di influenza a favore di corporazioni e leaderini locali. Una miscela esplosiva che porta diritta all’imprevedibilità dei comportamenti elettorali, favorendo l’astensione e il voto dell’ultimo momento, più per antipatia verso qualcuno che per favorire un grande progetto collettivo. Aumenta, in particolare, la reticenza degli intervistati a dichiarare le proprie, reali intenzioni di voto, rendendo così inattendibili i relativi sondaggi. Prendiamo la Turchia: solo un quarto dei cittadini si identifica con lo Stato laico di Mustafa Kemal Atatürk e padre del Partito Repubblicano del Popolo dello sconfitto Kemal Kılıçdaroğlu. Eppure, molti intervistati hanno taciuto o omesso la propria intenzione di voto e nessuno ha tenuto conto della maggioranza silenziosa religiosa e nazionalista, che continua a riconoscersi a pieno titolo in Erdoğan e nella sua narrazione nostalgica per l’impero perduto e da riconquistare. Una grande lezione anche per l’Italia. Non è vero segretario Elly Schlein?

Aggiornato il 13 giugno 2023 alle ore 10:58