La riforma costituzionale e la riorganizzazione delle Regioni

La presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, d’intesa con i suoi alleati di governo, ha riproposto la questione dell’esigenza di riformare alcune disposizioni costituzionali, per modificare la forma di governo, nel senso di un rafforzamento del potere esecutivo.

Al riguardo, il modello istituzionale preferibile è quello semipresidenziale proprio della Francia; a suo tempo affermatosi per volontà di Charles De Gaulle. C’è una grande differenza fra il semipresidenzialismo e proposte strampalate come l’elezione del “Sindaco d’Italia”, della quale si fa assertore Matteo Renzi. Nel semipresidenzialismo resta intatto il ruolo della Assemblea nazionale, liberamente eletta dal corpo elettorale in un momento diverso rispetto all’elezione del capo dello Stato.

Dal mio punto di vista, un libero Parlamento, rappresentativo della Nazione, è un presidio di libertà, indispensabile come momento di riequilibrio rispetto al Potere esecutivo. Qualora la maggioranza parlamentare non coincida con l’indirizzo politico del Presidente, servirebbe la capacità politica di quest’ultimo. Emmanuel Macron, invece, ha evidenti limiti, sia caratteriali, sia di cultura politica. Lo si descrive come liberale; invece è di formazione socialista e ritiene, a torto, che basti il decisionismo, senza preoccuparsi di mediare per allargare l’area del consenso.

Se cercate autentici liberali europei pensate alla Fdp di Christian Lindner in Germania, o alla Vvd di Mark Rutte nei Paesi Bassi. Macron non c’entra; infatti, piace a Carlo Calenda e a Matteo Renzi, i quali vorrebbero collocarsi al centro del sistema politico italiano, ma sono entrambi ex dirigenti del Partito democratico.

La Francia ha una tradizione rivoluzionaria e insurrezionale: 1789, 1830, 1848, 1870, fino al maggio 1968. Mette tristezza, tuttavia, che su un argomento quale la riforma del sistema pensionistico, possibile oggetto di mediazioni, si debba assistere ad una guerriglia urbana inutilmente distruttiva in tante città francesi, grandi e piccole. Un Capo dello Stato dovrebbe avvertire la responsabilità di garantire l’unità della società. Non esasperare le divisioni.

Per quanto direttamente mi riguarda, in passato ho difeso la forma di governo parlamentare. Ricordo il leader della destra missina, Giorgio Almirante, il quale chiedeva che in Italia si adottasse la stessa soluzione voluta da De Gaulle. Ricordo che, nel mio piccolo, criticai il leader del Partito socialista, Bettino Craxi, il quale, negli anni Ottanta del secolo scorso, lanciò la parola d’ordina della Grande Riforma istituzionale, sia pure espressa in termini ancora troppo generici.

Quanti oggi si schierano a difesa della forma di governo parlamentare, sostengono che non ci sia altro modo per garantire che la Presidenza della Repubblica resti una istituzione neutra, super partes. Ricordiamo gli ultimi sei presidenti, eletti in un momento successivo al maggio del 1978, data dell’uccisione del leader democristiano Aldo Moro, da parte dei terroristi delle Brigate Rosse: Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella.

In un sistema politico troppo frammentato, quale quello italiano, i presidenti della Repubblica hanno finito per svolgere sempre più incisivi compiti di supplenza politica. Sono venuti meno i grandi partiti del dopoguerra, come la Democrazia cristiana e il Partito comunista, ciascuno dotato di un proprio, effettivo, radicamento nella società italiana.

Presidenti quali Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella sono stati determinanti nello stabilire i rapporti fra l’Italia e le istituzioni della Unione europea, le quali, come è noto, si reggono su un accordo politico fra il Partito popolare europeo e quello dei Socialisti e dei democratici. I medesimi presidenti hanno avuto un ruolo pregnante nella politica estera; ad esempio, nel ribadire la fedeltà dell’Italia alla Alleanza Atlantica (Nato). Scusate se vi pare poco.

Le vicende del Partito democratico dimostrano ampiamente che la neutralità del Presidente della Repubblica è soltanto un mito. Il Pd, indipendentemente dal buono o cattivo esito delle elezioni, tende a far parte di quasi tutti i governi. Reale partito di potere, deve le sue fortune al fatto di essere interprete fedele della volontà politica del capo dello Stato. La finta neutralità dei Presidenti della Repubblica ci induce a chiederci fino a che punto un governo dichiaratamente di destra possa coesistere con un capo dello Stato che non fa mistero di avere un indirizzo politico di centrosinistra Ciò che è più grave, il pensiero del capo dello Stato penetra nell’opinione pubblica attraverso gli organi di informazione di massa; diventa senso comune, fondamento della ideologia del politicamente corretto.

Così può capitare che un intellettuale noto, quale Gad Lerner, definisca la politica sull’immigrazione che il Governo Meloni sta cercando di definire “ingiusta, disumana, inefficiente”. Giudizi riportato in prima pagina da un importante quotidiano e poi accettato come senso comune. Peccato che tale giudizio concordasse con quanto dichiarato da un dirigente politico francese (del partito di Macron).

I progressisti leggono la nostra Costituzione e ne traggono la conseguenza che debbano trovare realizzazione tutti i diritti fondamentali di ogni persona umana, a prescindere da ogni logica di copertura finanziaria, ossia a prescindere dalle risorse finanziarie di cui lo Stato effettivamente disponga.

Per fare meglio comprendere la posta in gioco, ricordo l’intervento che Claudio Martelli, al tempo dirigente politico emergente, svolse nel 1982 a Rimini, in una Conferenza programmatica del Partito socialista italiano. Martelli parlò di meriti e di bisogni come di un binomio indissolubile.

Pure l’idea dei meriti è affermata nella Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (articolo 34, terzo comma, Costituzione). La logica egualitaria, tuttavia, tende a contrapporsi a quella meritocratica.

Il recente movimento degli studenti universitari ha ragione di chiedere che si rendano disponibili nuovi alloggi per i fuori sede nelle residenze universitarie e nelle case dello studente; così come ha ragione di protestare contro il caro affitti. Temo però che a nessuno verrebbe in mente che la possibilità di entrare, o di permanere, nelle residenze universitarie debba essere sottoposta alla condizione di ottenere un certo rendimento negli esami universitari. L’idea dei meriti va oltre la considerazione delle condizioni materiali delle persone e fa appello ad esigenze spirituali: la forza di volontà, la tenacia, la capacità di sacrificio, l’autodisciplina. Ad esempio, nei Paesi nordici e in quelli anglosassoni c’è l’istituto del prestito d’onore, concesso a condizioni di favore agli studenti per consentire loro di frequentare e di concludere il corso di studi che hanno scelto, ma prestiti che loro stessi si impegnano a restituire a distanza di un certo numero di anni dalla conclusione degli studi.

Tra i princìpi fondamentali della Costituzione c’è l’articolo 5, secondo cui: “La Repubblica, una e indivisibile, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e de decentramento”.

Nel diciannovesimo secolo si riteneva, giustamente, che fosse sbagliato presumere che un unico centro decisionale, portatore di identiche procedure amministrative, potesse amministrare territori geograficamente lontani ed aventi caratteristiche sociali, economiche, culturali, molto differenti fra loro. Veniva criticato e respinto il modello amministrativo napoleonico. Il mondo umano del ventunesimo secolo è del tutto diverso: oggi tutte le attività economiche e finanziarie hanno rilevanza e si influenzano reciprocamente nella dimensione globale, così come le distanze geografiche hanno sempre minore importanza perché le comunicazioni sono veloci e le informazioni sono disponibili quasi immediatamente. Ne consegue che il concetto di autonomia regionale non possa più essere concepito come lo intendeva Carlo Cattaneo nel 1848, ma richieda un radicale ripensamento.

È errato ritenere che tutte le Regioni elencate nell’articolo 121 della Costituzione costituiscano realtà istituzionali consolidate, con una propria tradizione storica. Si può fare l’esempio della Emilia-Romagna, i cui centri abitati erano riconducibili a tre diverse entità statuali: 1) i territori dello Stato Pontificio (con l’importante città di Bologna 2) il Ducato di Modena e Reggio; 3) il Ducato di Parma e Piacenza.

L’istituto regionale fu molto valorizzato nella cultura politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Pure questo è un retaggio della diffidenza che i cattolici nutrivano nei confronti dello Stato italiano unitario. La concezione della autonomia territoriale ebbe un valore fondamentale anche in quella parte del Partito repubblicano che si richiamava al pensiero di Carlo Cattaneo. Tra i deputati repubblicani membri della Assemblea costituente va ricordato Oliviero Zuccarini, significativo esponente di tale tendenza. I repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, invece, erano fortemente unitari. Temevano che la rivendicazione delle autonomie fosse un espediente per mantenere in vita, in forme diverse, i vecchi Stati preunitari.

Benedetto Croce, nella qualità di membro dell’Assemblea costituente e di presidente del Partito liberale (Pli), l’11 marzo del 1947 intervenne per valutare complessivamente il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75. Nell’occasione criticò “la tendenza a costituire le Regioni, a moltiplicarne il numero, ad armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorta”. Il discorso al quale faccio riferimento è titolato “Il disegno della nuova Costituzione dello Stato italiano”. Croce sapeva di interpretare un punto di vista minoritario: sia i socialisti di Pietro Nenni, sia i comunisti di Palmiro Togliatti, ed anche alcuni liberal-radicali come Francesco Saverio Nitti, erano a favore dell’istituto regionale. Secondo Croce, dopo il fascismo e la guerra sciagurata, l’Italia si trovava nelle condizioni di “un organismo che ha sofferto una grave malattia”. Si era smarrito così il senso che il massimo bene ereditato dal Risorgimento fosse l’unità dello Stato italiano. Il regionalismo era paragonabile ad un male morale: alimentava le divisioni, i contrasti, le gelosie. Si risvegliavano malanni antichi, quali i contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale.

Ben venti articoli della Costituzione entrata in vigore l’1 gennaio 1948, dal 114 al 133, si occupavano delle autonomie regionali e locali. Questa (Titolo quinto della parte seconda) è la parte della Costituzione che ha subìto le più rilevanti modifiche. Ciò è avvenuto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, approvata quando era in carica un governo con indirizzo di centrosinistra. Quella riforma non fu felice; anche se fu confermata dal Corpo elettorale, in un Referendum troppo poco partecipato.

Non contribuisce certamente all’efficienza del sistema amministrativo italiano il fatto che ci siano ventuno differenti ordinamenti giuridici (19 Regioni più due Province autonome). Per chi, come me, prende molto sul serio la problematica della partitocrazia, nel senso definito da Giuseppe Maranini (1902-1969), è evidente che 19 Regioni e due Province autonome costituiscano lo scenario ottimale per classi politiche irresponsabili. Altro che bene comune! Altro che amor di Patria! Soltanto ruoli istituzionali, cariche ben remunerate, tanta visibilità pubblica, gestione del potere, per un alto numero di professionisti della politica.

Se poi si entra nel merito della riforma del Titolo quinto attuata nel 2001, si nota come quattro livelli di governo territoriale (Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni) siano davvero troppi. Per questa via si crea il massimo di confusione istituzionale, nel senso che agli occhi dei cittadini non è più chiaro quale istituzione sia competente. Si assiste ad un continuo rimpallo di responsabilità fra le istituzioni, perché ciascuna sostiene che un determinato intervento avrebbe dovuto essere posto in essere da altra istituzione. Così tutti diventano irresponsabili. Per non parlare della problematica del federalismo. Questo, in linea teorica, dovrebbe servire a federare, ossia a mettere insieme, ad unire, realtà statuali, o comunità sociali, che siano fra loro separate; cosicché, dopo la federazione, abbiano un governo unitario.

Negli anni Novanta del secolo scorso si affermò, invece, un curioso federalismo italiano. Doppiamente curioso perché l’Italia era Stato unitario dal 1861 e perché la nostra Costituzione dava già fin troppo spazio al sistema delle autonomie, regionali e locali. Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, e raffinati giuristi come Gianfranco Miglio, intesero il federalismo in senso opposto: per loro si trattava di allentare i vincoli che legavano la Lombardia e il Veneto al resto del Paese. Chiedevano che la maggior parte delle entrate finanziarie derivanti dal gettito fiscale e dalla riscossione dei tributi in genere, restasse nei territori del Nord, là dove era avvenuta la riscossione. Avevano fondamentalmente due obiettivi polemici. Il primo era “Roma ladrona”, ossia la burocrazia ministeriale, la quale, per definizione, era presentata come inefficiente e corrotta. La polemica si sviluppava poi contro i meridionali, i terroni, descritti come gente con poca voglia di lavorare, di null’altro desiderosi che di essere assistiti con la spesa pubblica. La Lega Nord dichiarava di ribellarsi a questo supposto parassitismo dei meridionali.

L’attuale segretario della Lega, Matteo Salvini, ha una linea politica ben differente rispetto a quella prima espressa da Bossi ed ha puntato a costruire un partito nazionale, presente anche al Sud.

Il Governo in carica, tuttavia, vuole utilizzare l’articolo 116 della Costituzione (come modificato dalla riforma costituzionale del 2001) per attivare forme e condizioni particolari di autonomia a vantaggio della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia-Romagna.

Anche in questo caso, tutto si riduce ad una questione di soldi: il Veneto, ad esempio, non può sopportare di trattenere una quota dir risorse inferiore a quella spettante alla confinante regione del Trentino-Alto Adige, la quale gode di autonomia differenziata. Non aveva torto, dunque, Benedetto Croce quando parlava di malattia morale!

Cercherò di meglio precisare il mio punto di vista in un successivo articolo. Ora è sufficiente affermare che mi sono convinto di due cose; 1) in un sistema così istituzionalmente frammentato e così partitocratico quale è l’Italia, una riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, potrebbe servire a rendere più forte, stabile ed autorevole, il governo del Paese; 2) la eventuale riforma costituzionale non può limitarsi al predetto aspetto, sempre che si segua veramente l’esigenza di perseguire il bene comune, l’interesse a rafforzare la Nazione. C’è la stringente necessità di riformare radicalmente il sistema delle autonomie regionali e locali. I finti democratici ed i finti autonomisti si opporranno con tutte le loro forze, perché hanno troppo da perdere. Mi sia consentito, da modesto intellettuale, di indicare quelle che, in coscienza, sono mie convinzioni profonde e che, nel contempo, mi sembra non manchino di un fondamento razionale.

(fine prima parte)

Aggiornato il 18 maggio 2023 alle ore 09:22