Ogni anno ad aprile si aprono le polemiche intorno al significato da attribuire alla Liberazione dal nazifascismo dell’Italia con una particolare attenzione a chi è presente e chi no alle celebrazioni ufficiali. La Resistenza fu un fenomeno nazionale e plurale tale da poterla definire come il II Risorgimento italiano: sia per la partecipazione diretta come lotta armata contro l’occupante tedesco, che per quella non collaborazionista, indiretta e morale. Essa permise al governo italiano di allora di passare al fianco degli alleati contro l’esercito di Adolf Hitler nella fase finale della guerra. Peraltro, il 25 aprile come festività fu istituita con decreto del 22 aprile 1946 dal capo di stato di allora, il luogotenente generale del Regno d’Italia Umberto di Savoia, proprio a testimoniare come quella lotta era stata di popolo, fatto di monarchici, liberali, cattolici, azionisti, socialisti e comunisti. Un fenomeno variegato e multipolare tanto che da una scissione dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia nacque nel 1948 la Federazione italiana dei volontari per la libertà di ispirazione anticomunista.
Dal 1945 ad oggi però questa fausta ricorrenza è stata monopolizzata prima dal Partito comunista e poi dalla sinistra in generale, anche per la poca attenzione degli altri protagonisti, rendendola un appuntamento di parte che naturalmente ha escluso chi non si riconosceva nel “radicalismo rosso” che in virtù di una presunta superiorità morale credeva di potere assegnare patenti di antifascismo a chicchessia senza tenere conto di storie personali e culturali non omologabili, facendo così della memoria della Resistenza solo uno sterile e astioso strumento di lotta politica. Ma quale è l’atteggiamento, non il giudizio storico, della stragrande maggioranza degli italiani rispetto al fascismo oggi? A cento anni dalla sua fondazione e a 80 dalla caduta, è probabilmente di placida indifferenza.
Gli italiani sono passati da essere per vent’anni fascisti convinti, infatti tra i docenti universitari in pochissimi (12) si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo nel 1931; divennero antifascisti “impegnati” per i successivi 80, come quelli che avevano indossato la camicia nera nelle università per convinzione o costrizione e che poi si rifecero la verginità nel democraticamente corretto della Prima Repubblica come Fanfani, Moro, Scalfari e Scalfaro; per finire oggi “Afascisti” distaccati e forse anche cinici. Il termine, coniato da Giuseppe Berto, indica un atteggiamento di chi non prende posizione nei confronti del fascismo né in un senso né in un altro, forse perché lo sente lontano nel tempo e nello spazio. Uomini indifferenti ad un fenomeno storico superato e consegnato ai libri e alle speculazioni dei dotti. Scriveva Berto nella sua relazione al Congresso internazionale per la difesa della Cultura, a Torino nel 1973 organizzato dal Centro italiano documentazione azione studi (Cidas), “io non sono fascista, ma non sono nemmeno antifascista. Sono venuto qui appunto per difendere il mio diritto di non esser perseguitato come fascista soltanto perché non voglio dichiararmi antifascista.
Dico di non essere né fascista né antifascista. Allora, cosa sono? Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa davanti. Lo faccio non per lo snobismo d’introdurre una parola nuova, ma perché questa parola, afascista, secondo me esprime qualcosa di nuovo, e cioè un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo, il quale, almeno così come viene praticato dagli intellettuali italiani, è terribilmente vicino al fascismo. Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido. D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido”. Di quest’ultima idea se ne è resa ben conto la maggioranza degli italiani per i quali i problemi sono altri: l’inflazione, la guerra alle porte, la crisi bancaria, il debito pubblico, lo statalismo soffocante e la burocrazia invasiva (i peggiori retaggi del fascismo che però nessuno nei fatti combatte). Solo per citarne alcuni. Non se ne sono accorti solo gli esponenti della sinistra che nascondono la mancanza di idee e programmi con l’ossessione verso un fascismo che non c’è. E di contro non riescono neppure a condannare con altrettanta forza il comunismo che invece c’è ed opprime uomini e donne in varie parti del globo. Non si dicono anticomunisti ma pretendono dagli altri che si definiscano antifascisti.
In fin dei conti, questa retorica serve a far passare l’idea malsana che c’è un totalitarismo buono, il comunismo, sia nostrano che d’importazione, e uno cattivo il nazionalsocialismo o nazifascismo e il primo va protetto con ogni artificio linguistico dall’equiparazione al secondo. Fanno finta di non sapere che entrambi hanno la stessa origine antiumana, utopistica, gnostica, platonica ed hegeliana. Sono facce della stessa medaglia collettivistica e liberticida. Inoltre così facendo acquietano la loro coscienza veteromarxista: attaccando i propri avversari politici anche quando gli stessi fanno passi avanti nel segno della libertà e della pluralità, perché al loro tribunale speciale le professioni di fede democratica non bastano mai. Fascismo, nazionalsocialismo e comunismo sono i frutti avvelenati della stessa pianta, e chi non li condanna tutti e tre o è in mala fede o è un nemico della società libera ed aperta e va smascherato per quello che è un totalitario. La retorica dei totalitarismi buoni produce solo dei pifferai falsi. Per questo la Libertà va preservata dagli arruffa popoli che in nome di presunti ideali superiori sono capaci di compiere qualsiasi empietà. Intanto, sarebbe un notevole passo avanti per l’Italia se il 25 aprile del futuro, deprecando tutti i totalitarismi di ieri e di oggi, potessimo festeggiare in santa pace la Liberazione oltre che dal nazifascismo (fortunatamente tramontato) anche dalla stupidità, dal pregiudizio ideologico, dall’ignoranza e dagli imbonitori da fiera che affollano le scene del triste, retorico, passatista spettacolo a cui siamo purtroppo costretti ad assistere da troppo tempo.
Aggiornato il 28 aprile 2023 alle ore 09:45