
Tutti parlano di “Stato di diritto” ma forse non tutti sanno cosa sia. Stato organico o Stato accentratore? Libertà o tirannia? Una riflessione per cercare di capire quando è nato e che cosa sia in realtà.
Si fa un gran parlare, da destra a sinistra, non solo in Italia, ma pressoché in tutto il mondo, di “Stato di diritto”, locuzione che è diventata una sorta di parola talismano. In Italia sono soprattutto i radicali a battere su di essa, come un tam-tam, ma ultimamente anche il presidente Giorgia Meloni ne ha parlato nella sua conferenza di fine anno alla stampa.
Ma cosa è lo “Stato di diritto” e quando nasce?
La questione, per la sua complessità e rilevanza meriterebbe maggiore spazio e più importante penna, ma proviamo a dare alcune coordinate.
L’articolo 2 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea (versione consolidata) pone lo “Stato di diritto” tra i valori fondanti dell’Unione, senza, però darne una definizione univoca, sicché, per ricostruirla, occorre guardare alla storia e alla tradizione delle democrazie europee liberali.
Il concetto di “Stato di diritto” nasce alla fine dell’ “ancien régime”, ovvero con la Rivoluzione francese (1789-1799) e l’affermarsi della classe borghese e dei suoi valori, sebbene se ne possano vedere i prodromi nella costituzione inglese del XVII secolo e nei suoi documenti “Bill of rights”, “Habeas corpus”, “Act of Settlement” e nella Rivoluzione americana.
Il concetto che si affermò allora si può riassumere nel fatto della supremazia della legge. La separazione dei poteri, il principio di legalità e della certezza del diritto, il divieto di arbitrarietà del potere esecutivo e la tutela giurisdizionale sono corollari della supremazia della legge. La legge, ovvero l’emanazione di norme giuridiche generali ed astratte da parte degli organi a ciò deputati, i parlamenti – completamente diversi dai parlamenti dell’ “ancien règime”, organi per lo più di carattere giurisdizionale –, obbliga tutti al suo rispetto, anche lo Stato. In poche parole, solo ciò che è legge è legale, quindi è buono e giusto. Questo, in un certo senso segna la fine del diritto naturale. Con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi: penso, tra le tante, alla “legge” 194 del 1978, che ha introdotto nel nostro ordinamento il “diritto” all’aborto, e che è stata giustamente condannata da diversi pontefici, a cominciare da san Paolo VI, allora regnante, e poi da tutti gli altri papi, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. “Rifiutando il diritto naturale, e attribuendo allo Stato la creazione di ogni diritto, il positivismo nasce come nuova forma di immanentismo”, scrive il filosofo del diritto José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992) (José Pedro Galvão de Sousa, “La rappresentanza come valore simbolico che manifesta un ordine trascendente”, in “Cristianità” numero 212-1992). Immanentismo di carattere gnostico, come diagnosticato dal filosofo Eric Voegelin (1901-1985).
A principiare dalla “Rivoluzione francese”, la sovranità appartiene, quindi, ad un unico ente, lo Stato, realtà impersonale e accentratrice, che non tollera corpi intermedi tra sé e i cittadini, ridotti a mere entità isolate in sua balìa. È significativo che una delle prime leggi emanate all’inizio della Rivoluzione francese sia stata la legge detta “Le Chapelier” dal suo promotore, promulgata dall’Assemblea costituente il 14 giugno 1791, che abolì le organizzazioni di mestiere, innanzitutto le corporazioni, il “compagnonnage”, ovvero l’organismo che riuniva gli antichi mestieri, ma anche le prime forme di sindacato e finanche il diritto di sciopero. Sottolinea in proposito Galvão de Sousa come la concezione moderna dello Stato di diritto abbia “un punto di partenza inaccettabile” perché “ammette il falso presupposto sociologico della società come aggregazione inorganica di individui. Fa di ogni cittadino un Robinson Crusoe e, di conseguenza, prescinde dai corpi intermedi nella strutturazione del sistema, in questo modo preparando lo Stato di massa” (José Pedro Galvão de Sousa, ibidem).
Come sostiene sempre Galvão de Sousa, la sopravvalutazione del potere dello Stato ha la sua genesi nella rottura del pensiero moderno con il trascendente, che si manifestò con Nicolò Machiavelli (1469-1527) e con Thomas Hobbes (1588-1679; di quest’ultimo è il concetto di Leviatano). “Nello stesso tempo in cui l’ordine della società veniva svincolato in questo modo dalla sua subordinazione a un ordine trascendente, si operava la sopravvalutazione del potere dello Stato, a partire dal concetto di sovranità formulato da Jean Bodin (1530-1596)” (José Pedro Galvão de Sousa, ibidem). Di lì si passa alla deificazione del popolo, con Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), della Nazione, da parte dei giacobini, dello Stato, da parte di Geor Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) e dei moderni totalitarismi comunisti, nazionalsocialisti e fascisti.
Venendo ai tempi odierni, vorrei ricordare come in nome dello “Stato di diritto” i moderni organismi sovranazionali, come l’Ue, fondati sulla medesima concezione atomistica sopra delineata, vogliano imporre questa concezione a Stati come la Polonia e l’Ungheria, nei quali, invece, i cittadini rivendicano la propria identità non solo come individui singoli, ma come appartenenti a gruppi intermedi quali la famiglia, la comunità e la nazione; Paesi tacciati di “democrazie illiberali”, perché, ad esempio, rivendicano la loro autonomia in campi importanti quali la tutela del diritto alla vita o la regolamentazione dell’immigrazione. E ciò fanno per mezzo di un ricatto economico, condizionando i fondi del Next Generation Eu all’adeguamento di questi Paesi ai parametri della “democrazia liberale” altrove vigente. Un bel esempio di democrazia.
In conclusione, il concetto di Stato di diritto va approfondito, anche onde evitare che esso venga usato impropriamente da coloro che in realtà, per la loro formazione culturale e politica, ne sono, forse inavvertitamente, distanti.
(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino
Aggiornato il 11 gennaio 2023 alle ore 13:01