
“Se la base non ha voce il destino del Partito democratico è segnato”. Paola De Micheli pronuncia il proprio J’Accuse contro l’oligarchia del Pd. Intervenendo a Vibo Valentia, in occasione di un incontro con dirigenti provinciali e iscritti, la candidata alla carica di segretaria nazionale attacca l’establishment dem. “La partecipazione – sostiene – è importante, è il sale della democrazia, ma se la partecipazione non decide la democrazia non si compie; e nel Partito democratico è incompiuta in quanto esiste invece una oligarchia che decide tutto, sia sulle persone, che sui temi, che sui contenuti”. Per De Micheli la difficoltà del partito è evidente. “Abbiamo un problema – aggiunge – all’interno del Pd: i suoi soci non contano nulla. Basti pensare che c’era un milione di iscritti alla nascita mentre oggi sono appena 55mila. Di fatto, i circoli non decidono chi sono i parlamentari né sulle scelte politiche. Nel momento in cui non si dà voce alla base nei processi decisionali il destino è segnato: ci si ridurrà a diventare un movimento elettorale per candidare sindaci, presidenti di Provincia, di Regione. Non è questo il destino della sinistra, ma secondo qualche altro candidato alla segreteria invece sì. Per parte mia, credo che abbiamo fondato il Pd per fargli assolvere un ruolo storico e che anche i circoli devono esistere come sentinelle del territorio per la loro capacità di prossimità ai problemi veri”.
Secondo De Micheli, la sua candidatura, “con un punto di vista femminile, concreto, pragmatico, realistico vuole provare a rivitalizzare il principio che ci ha uniti 16 anni fa e vuole provare a disegnare un desiderio, una visione collettiva per ritornare ad avere voglia di cambiare il mondo, senza tatticismi. Di tattica muoiono le squadre di calcio, figuriamoci i partiti politici. Io credo – sottolinea – che noi ci siamo persi perché il Pd è diventato un luogo in cui bisognava rispondere non ai bisogni dei cittadini ma dei singoli dirigenti. Questa situazione ha determinato rotture sulle relazioni interpersonali, l’assenza di una vera unità del partito a fronte di un unanimismo di facciata in certi passaggi, anche molto delicati della nostra storia. O il Pd si riprende il principio vitale per il quale è nato e che è il desiderio collettivo di cambiare le cose, di perseguire politiche egualitarie e sostanziali, altrimenti in questo modo non ce la facciamo, neanche se viene il Padreterno a guidarlo”.
De Micheli propone di riscrivere “lo Statuto dei lavoratori, di trasformarlo nello Statuto dei lavori e di ricominciare a scrivere i diritti sostanziali tra tutti quelli che lavorano. Non possiamo tenere separata la questione del salario con quella dei diritti. Ci sono alcuni contratti collettivi nazionali che non riconoscono la malattia o la maternità. E come possiamo pensare che i giovani rimangano al Sud? Il tema del lavoro l’abbiamo dimenticato in funzione del tatticismo e del governismo e lo dice chi ha vissuto un travaglio enorme con la segreteria Zingaretti sul decidere se andare o meno al governo con i cinque stelle, e che ha subito pressioni enormi per costituire l’esecutivo. Poi, vero, ho fatto il ministro, ma ricordiamo tutti la discussione dell’agosto 2019. Ebbene, non ci possiamo permettere di essere distratti dal potere ma dobbiamo usarlo per cambiare le cose”.
Intanto, prosegue la querelle a distanza tra Elly Schlein, che insiste sul voto online alle primarie e Stefano Bonaccini che lo boccia. “Non mi interessa ora parlare di regole. C’è una commissione preposta”, taglia corto il governatore dell’Emilia-Romagna nel suo tour elettorale al sud. E ribalta il tema: “Vedo che altri si interessano di questo, io invece preferisco occuparmi di salario minimo, di sanità pubblica che viene tagliata, di scuola e ambiente”. Temi, in realtà, sollecitati anche dalla sua ex vice in Regione che ha chiesto ai Dem di farne una priorità. “Per questo continueremo a proporre, in ogni passaggio parlamentare, anche l’introduzione del salario minimo”, rammenta Schlein.
Per il resto Bonaccini continua a intestarsi la battaglia sulla riforma dell’autonomia: mettendosi più nei panni dell’amministratore locale, insiste a dire no alla bozza proposta dal ministro Roberto Calderoli (di cui ha chiesto il ritiro) e promette: “Se pensano di spaccare l’Italia e aumentare le differenze tra nord e sud, troveranno un muro”. A stretto giro pesano malumori e fermenti interni, che covano in vista delle primarie che tra un mese designeranno il prossimo leader e che potrebbero slittare di una settimana, dal 19 al 26 febbraio. Se ne discuterà nella Direzione di mercoledì, così come eventualmente di allargare al voto extra gazebi e circoli. Ma è sul futuro del partito che serve ragionare, è la sollecitazione più diffusa.
E Bonaccini sembra andare oltre. Immagina “un Pd popolare, che sta di più tra le persone” e non “dentro una cerchia di gruppi dirigenti” e che non ha paura ad aprirsi. In più, nessun veto sugli ex alleati guidati da Conte e su quelli del patto mancato con Carlo Calenda e Matteo Renzi, alle ultime politiche. Ma con un doppio paletto: “Non puoi pensare di fare alleanze in condizioni di debolezza e quindi di subalternità”, e “non a tavolino” bensì su programmi e temi, facendo notare che i patti siglati a livello locale risentono delle peculiarità dei territori. Il pensiero corre alle regionali di febbraio che ad esempio nel Lazio vedono in campo Alessio D’Amato per Dem e Terzo polo: all’assessore alla sanità laziale il M5s ha detto no (anche per la sua posizione sugli inceneritori) virando invece su Donatella Bianchi, l’ex presidente del Wwf che ufficialmente sarà in corsa da martedì.
Aggiornato il 09 gennaio 2023 alle ore 18:33