
Una sorta di regola fissa, per chi vuole avanzare una nuova proposta legislativa, sembra essere una, ossia “lo fanno anche in altri Paesi”. Si tratta di una tecnica politica che, però, non pare essere sempre condivisibile. Poiché una certa norma vige altrove, non è in alcun modo ragionevole ritenere che essa dovrebbe essere applicata senza esitazione anche da noi.
È il caso della proposta, singolarmente avanzata da un esponente del centrodestra, di introdurre un ammontare delle multe stradali proporzionale al reddito di chi commette l’infrazione. Innanzitutto, non pare che questa norma, nei Paesi che l’hanno introdotta, abbia significativamente contribuito a rendere le strade più sicure. E ciò non deve stupire, poiché da sempre l’inasprimento delle pene non ha alcun effetto sulla propensione a delinquere. In secondo luogo, perché è del tutto evidente che l’unica cosa che subirebbe qualche variazione positiva sarebbe l’incasso da parte dei Comuni, già oggi alacremente intenti a fare cassa con i cosiddetti tutor – piazzati spesso senza criterio – più che a pensare alla sicurezza pubblica.
Ma è il principio della “proporzionalità” rispetto al reddito a destare la maggiore preoccupazione nel nostro Paese, già sensibilmente orientato a punire maggiormente proprio chi guadagna di più, secondo una para-ideologia dominata dall’invidia sociale e dalla magnifica sentenza per cui “anche i ricchi piangano”, ignorando l’alternativa preferibile, cioè che “anche i poveri sorridano”.
Dietro la proposta in oggetto risiede, fra l’altro, una perfetta sintonia con la progressività delle imposte dirette che già di per sé rappresenta, in realtà, un prelievo più che proporzionale in termini percentuali rispetto alla proporzionalità già garantita dal prelievo in termini assoluti, così come sarebbe garantito da una tassa “piatta”. In fondo, la iper-proporzionalità vige ovunque lo Stato, pieno di debiti, sia semplicemente mosso da una insaziabile fame finanziaria.
Inoltre, dovremmo fare attenzione a non creare un pericoloso precedente, anche se esso sarebbe musica per le orecchie degli odiatori sociali. Infatti, l’estensione del principio di “proporzionalità” potrebbe portare all’introduzione di tasse o tariffe legate al reddito in altri settori. Per esempio, perché mai il canone Rai, potrebbe dire qualcuno, dovrebbe costare per tutti allo stesso modo, ossia abbienti e non abbienti? E le accise sulla benzina perché devono pagarla tutti nello stesso ammontare, sia che si tratti di un banchiere o di un operaio che va al lavoro? Identica sorte potrebbero avere i prezzi dei biglietti ferroviari o, perché no, persino quelli dei francobolli. Lo stesso principio, insomma, potrebbe essere esteso a tutti i beni e i servizi che lo Stato offre ai cittadini, anche perché tutto questo è reso potenzialmente fattibile dalla semplice collocazione dei dati sul nostro reddito all’interno di una card elettronica resa obbligatoria. Come è ovvio, non si tratterebbe di esenzioni o alleggerimenti destinati ai detentori di basso reddito – come in certa misura accade già oggi – bensì di un appesantimento ulteriore del carico fiscale dei più abbienti, secondo la consueta logica punitiva che scambia la “redistribuzione” con la “espoliazione”.
È dunque chiaro che se la stessa norma è presente in altri Paesi, nel nostro assumerebbe un significato molto più ipocritamente “sociale”, per non dire socialista. Nonostante la tetra scenografia che potrebbe innescare la proposta di cui abbiamo parlato, sarei però d’accordo sull’aumento delle multe in base al reddito se – e solo se – fosse fatto obbligo ai Comuni di versare il denaro aggiuntivo in opere di beneficenza o di sostegno al volontariato, invece che usarlo per mantenere se stessi. Ma purtroppo, che io sappia, non vi sono altri Paesi da citare al riguardo.
Aggiornato il 15 dicembre 2022 alle ore 10:38