Ho collaborato due volte con l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, scomparso ieri a 67 anni. La prima occasione fu quando arrivò al Viminale nel 1994, primo ministro non democristiano, con il Governo Berlusconi. La seconda fu quando tornò al Ministero dell’Interno nel 2008, con il terzo Governo Berlusconi. In entrambe le occasioni ero un funzionario di Gabinetto. La prima volta che Maroni mise piede al Viminale ricordo che fu accolto dai dirigenti con formale cortesia, ma anche con una diffidenza di fondo. E sarebbe stato strano diversamente, dal momento che nel programma politico della Lega Nord era compresa l’abolizione dei prefetti e la realizzazione di un forte sistema autonomistico, se non addirittura secessionista. Probabilmente, tuttavia, qualcuno era più preoccupato per il proprio destino che non per quello dell’Italia, infatti gli animi si rilassarono quando Maroni mostrò un inaspettato animo moderato. Niente più abolizione dei prefetti, di cui anzi riconobbe l’importanza, e niente più secessione, semmai valorizzazione delle autonomie regionali e comunali.
Da ministro esordiente, in una macchina complessa quale è quella del Viminale, commise anche alcune ingenuità, derivanti probabilmente da uno staff tiepido nei confronti del ministro nordista. Per dare un’idea, ero l’unico dirigente prefettizio nato a nord di Bologna e certi epiteti leghisti nei confronti del Mezzogiorno non erano stati dimenticati. Ricordo che in un’occasione mi disse che apprezzava la mia parlata padana. Dicendo che talvolta peccò di ingenuità non intendo sminuirlo, dal momento che sarebbe in buona compagnia di tanti altri politici che hanno varcato la soglia del ministero.
Quando tornò al Viminale nel 2008, per restarvi quasi tre anni, dimostrò di essere cresciuto politicamente, anche se a una maggiore concretezza corrispondeva forse una minore idealità. Con i cosiddetti decreti sicurezza aumentò i poteri dei sindaci, inoltre dedicò una particolare attenzione al territorio casertano, che secondo le statistiche era la provincia a più alto tasso criminale d’Europa. Purtroppo in quel periodo il mio nome finì in mano a una consorteria criminale, che evidentemente era risalita a me in quanto avevo curato l’istruttoria per lo scioglimento di alcuni Consigli comunali casertani fortemente infiltrati e condizionati dalla criminalità organizzata. Fu lo stesso Maroni, su suggerimento di un suo collaboratore di fiducia, ad alleggerire la mia esposizione, soprattutto per quanto riguardava il mio impegno nel Piano per il Mezzogiorno, di cui mi aveva nominato referente nei confronti degli altri ministeri.
Successivamente, per Maroni si aprirono le porte di presidente della Regione Lombardia, che per un leghista vero vale più di cento ministeri. Ci scrivemmo alcune volte, con foglio e penna come si faceva un tempo, scambiandoci anche qualche confidenza personale. Tornò per l’ultima volta al Viminale lo scorso anno, quando il ministro Luciana Lamorgese lo nominò presidente della Consulta contro il caporalato. Due fugaci incontri bastarono per farmi capire che non versava in buone condizioni di salute. Poi più nessuna notizia. Fino a ieri.
Aggiornato il 23 novembre 2022 alle ore 10:35