
Chi vincerà nella guerra per proxy tra autocrazie e democrazie? Per rispondere, occorre anzitutto tipizzare le potenze tellurocratiche distinguendole da quelle talassocratiche. Una terza tipologia ibrida tra le due è rappresentata dagli Stati Uniti d’America, annoverati come la più grande potenza talassocratica del mondo per la quale, però, si può parlare della contestuale coesistenza di una strategia tellurocratica “morbida”, che opera gradualmente e pacificamente attraverso l’aggiunzione democratica di altro territorio in base a un processo federativo volontario. La Russia, prevalentemente tellurocratica, concepisce la conquista del mondo alla vecchia maniera prussiana: annettere manu militari quanto più territorio possibile a partire dai confini iniziali.
La Cina, invece, è quasi esclusivamente una potenza talassocratica, che intende dominare i mari circostanti, riprendendosi territori insulari storicamente appartenenti alla Madrepatria, come Hong Kong e Taiwan. Oggi, nel caso della Russia e della sua guerra d’invasione contro l’Ucraina, molti cittadini in Occidente e, soprattutto qui in Europa, dimenticandosi o non volendo pagare il prezzo per difendere i “sacri principi del diritto e dell’ordine internazionale”, si pongono l’interrogativo: “Ma Noi, in fondo, che cosa c’entriamo con questa guerra?”. Domanda ricorrente, come si è visto in questi giorni, all’interno di ampi settori pacifisti europei e che, per assurdo, potrebbe ricevere una risposta definitiva dall’arrivo delle truppe russe a Berlino, nel caso non remoto che le autocrazie prevalgano anche militarmente sulle democrazie.
Mentre, viceversa, non c’è da attendersi una guerra di potenza da parte del “pericolo giallo” cinese, con i cavalli mongoli dell’esercito popolare di Liberazione che si abbeverano alle fontane di Piazza San Pietro. Da Deng Xiaoping a Xi Jinping, infatti, la Cina, attraverso epocali delocalizzazioni industriali, ha praticato l’imperialismo commerciale fagocitando dalle aree più sviluppate dell’Occidente centinaia di milioni di posti di lavoro. Strategia quest’ultima che le ha consentito di portare parecchie centinaia di milioni di cittadini cinesi dalla povertà assoluta a un accettabile benessere, grazie a una crescita economica annuale a due cifre sempre più drogata dal surplus commerciale con il resto del mondo, e da decine di trilioni di yuan erogati negli ultimi due decenni dalle banche di Stato cinesi.
Questo fenomenale processo di creazione della ricchezza nazionale, in un Paese immenso di 1,4 miliardi di anime, è avvenuta consumando moltissimo territorio e vaste risorse naturali, per costruire gigantesche megalopoli da decine di milioni di abitanti ciascuna, veri alveari-opifici in grado di ospitare ogni sorta di attività produttiva, in base a un imponente processo migratorio di massa dalle campagne alle città. Oggi, che quell’espansione tumultuosa è in rapida frenata a causa del forte rallentamento della crescita economica, milioni di nuove case rimangono invendute alimentando l’esplosione di un’immensa bolla immobiliare, ben più grave di quella americana dei subprime.
Così come c’è da attendersi, a causa della crisi economica e delle tendenze recessive mondiali, un imponente riflusso della strategia imperiale cinese di occupazione “morbida” di territori extranazionali, realizzatasi nel tempo attraverso migliaia di “Chinatown” nate progressivamente all’interno di medio-grandi città europee e occidentali. Pianificazione, quest’ultima, favorita e incentivata fino a ieri dal governo di Pechino con la migrazione autorizzata di milioni di cittadini cinesi verso l’Occidente. A questa sorta di armata silenziosa di pedoncini-pionieri dell’imperatore celeste è stata garantita, grazie a capitali statali, l’apertura di molte migliaia di piccoli esercizi commerciali, utilizzati dal governo di Pechino del partito unico per piazzare, come farebbe un qualsiasi hub multinazionale, un’immensa produzione di merci a bassissimo contenuto tecnologico, senza curarsi del fatto che poi quei beni rimangano per lo più invenduti sugli scaffali, a causa della loro dubbia qualità e scarsa sicurezza.
Alla Cina capitalcomunista, infatti, è stato finora sufficiente che la macchina produttiva nazionale marciasse a pieno ritmo e non si fermasse mai, per garantire reddito e occupazione a sempre più ampie fasce sociali della sua popolazione. A dimostrazione della estraneità e del sentimento di esclusione verso l’esterno che aleggia nello spirito delle Chinatown, qui da noi gli “espatriati” dell’etnia han dominante hanno sempre potuto praticare un razzismo alla rovescia verso i Wasp occidentali, avendo la massima cura di far tornare le loro spoglie mortali sul sacro suolo della Patria, motivo per cui nessuno ha mai assistito qui da noi a un funerale e alla sepoltura di un cinese immigrato pro-tempore. E sempre per questo motivo, all’interno delle Chinatown vengono privilegiati in assoluto i matrimoni tra connazionali, con rarissimi unioni miste tra cinesi e autoctoni. La seconda questione del notevole aumento della frizione tra autocrazie e democrazie riguarda la natura stessa dei regimi autocratici contemporanei. Occorre dire, in prima approssimazione, che questi ultimi si assomigliano assai poco tra di loro e, spesso e volentieri, divergono nei rispettivi obiettivi strategici.
Come si è già visto, la Russia cerca sicurezza ai suoi confini allargandoli il più possibile con scriteriate avventure militari, pur di ricostruire l’ombrello protettivo antecedente al 1991 in modo da recuperare e sottrarre all’avanzata della Nato gli ex territori perduti con la scomparsa dell’Unione Sovietica. La Cina, invece, pratica l’imperialismo economico-commerciale “pacifico”, per creare un vassallaggio planetario che leghi a sé i Paesi meno sviluppati, ai quali viene garantita la realizzazione di grandi infrastrutture di comunicazione viarie e portuali da finanziare a debito, attraverso prestiti erogati da grandi istituzioni finanziarie cinesi.
In particolare, le tipologie dei regimi autocratici si possono suddividere in due categorie principali, che vanno dalle autocrazie elettorali ai regimi totalitari veri e propri. Le prime, si caratterizzano, come avviene in Russia, Turchia e Ungheria, per l’apparente scelta della leadership e del capo di Stato attraverso un sistema elettorale a suffragio universale, in cui però prevalgono le forzature costituzionali, realizzate attraverso maggioranze parlamentari compiacenti, che tendono a configurare un potere quasi assoluto e un mandato praticamente a vita per il presidente eletto, come nel caso di Vladimir Putin e, in parte, di Recep Tayyip Erdoğan e Viktor Orbán.
Poi, ci sono i totalitarismi autocratici, sia ereditari come in Nord Corea, che del Partito unico come in Cina, in cui i rispettivi presidenti hanno ottenuto di fatto un mandato a vita e operano come tiranni con pieni poteri, in assenza di qualsiasi opposizione. Le autocrazie hanno da un lato un tremendo vantaggio e, dall’altro, un terribile handicap. Il primo, è dato dalla prospettiva del mandato “lungo” pluridecennale, per cui possono essere programmate attività di governo e grandi interventi sistemici sulla base di progetti da realizzare nel medio-lungo periodo, grazie all’accentramento delle risorse dello Stato e all’estrema verticalizzazione e alla rapidità delle decisioni.
L’aspetto ferocemente negativo, invece, è dovuto alla inevitabile “clanizzazione” del potere totalitario, per cui si creano attorno al tiranno delle oligarchie parassitarie e onnivore, che drenano ai propri fini immense risorse dello Stato, generando un sistema corruttivo capillare negli apparati amministrativi pubblici e nelle imprese che beneficiano di finanziamenti statali. Come resistere, quindi, alla spinta globale e destabilizzante delle autocrazie come quelle dell’Ircocervo sinorusso?
Rafforzando i processi federativi volontari tra Stati europei, in modo da resistere all’aggressione militare esterna e ricordandoci ora e sempre che il potere di neutralizzare l’imperialismo commerciale e quello energetico dipende esclusivamente da Sua Maestà il Consumatore, individuale e collettivo: è lui, infatti, a decidere le sorti di chi sale e chi scende nel Gotha della globalizzazione! Basta riportare in patria con adeguati incentivi le attività industrializzate delocalizzate, potenziandole adeguatamente, in modo da ricostituire in Occidente decine di milioni di posti di lavoro, oggi migrati in Asia, per vincere la battaglia finale contro le autocrazie.
Aggiornato il 09 novembre 2022 alle ore 09:12