Italia cagionevole di Costituzione: superare il ’48

Quanti modi ci sono per “andare in guerra”? Tre, in generale: le armi, i cuori, le istituzioni. Sembrerà strano, ma le battaglie più feroci si svolgono squadernando senza sosta, sul tavolo di velluto delle azioni legali, una montagna di codici e centinaia di migliaia di pagine di testi giurisprudenziali. Oggi, per capirci, una grande democrazia come quella americana è letteralmente espropriata nel suo funzionamento essenziale dalla potentissima lobby degli avvocati. Nessun cittadino che abbia un minimo di reddito individuale e/o societario, o sia intestatario di una proprietà, anche molto piccola, può fare a meno di pagare ogni anno un conto salato ai suoi avvocati e fiscalisti, pena essere sbranato dagli agenti delle tasse. O mandato in rovina dalla valanga di ammende conseguenti alla violazione di astrusi e invasisi regolamenti locali (di municipalità e Stati) che dettano norme asfissianti su ogni aspetto dell’esercizio delle libertà individuali, come avviare un commercio o un’impresa individuale, vendere un’abitazione, e così via.

In Italia va anche molto peggio. I cittadini occidentali non se ne rendono conto, ma in realtà per tutta la loro vita combattono una guerra senza quartiere contro una burocrazia ottusa, illiberale e asfissiante e debbono costantemente difendersi dai soprusi del Fisco e dei suoi agenti esattori. Per non parlare delle altrettanto oppressive burocrazie degli Enti locali, che li obbligano a pagare tasse aggiuntive per servizi pubblici totalmente scadenti. Ma il disastro vero avviene in primis nelle istituzioni “alte”. L’Italia ha una (formalmente bellissima) Costituzione sui quali articoli, commi, periodi e persino aggettivi si sono svolte infinite e interminabili controversie, senza mai venire a capo dei suoi grandissimi limiti attuali, per quanto riguarda la governabilità, l’eccesso di parlamentarismo inconcludente (ormai i governi italiani agiscono attraverso l’abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia!), l’impossibilità di prendere decisioni rapide nell’interesse pubblico e di farle rispettare.

Da tempo, in Occidente, l’avvento della globalizzazione ha messo in cortocircuito e inserito sulla linea dello scontro diretto le grandi Autocrazie con le Democrazie storiche occidentali. Com’è stato ormai ampiamente dimostrato, le leadership deboli e sempre transeunti dei Paesi democratici non solo non godono di una coesione e di un’unità di comando che le coordini e le faccia agire come un solo uomo dinnanzi a un avversario planetario, ma per di più, di fronte a iper-leadership come quella politico-economica di Xi Jinping e dell’imperialista post-comunista Vladimir Putin, tendono a dividersi in più fazioni, il più delle volte con una tendenza collusiva e accomodante di fronte ai due giganti totalitari.

L’Italia, in tutto questo, non solo non fa eccezione ma presenta aspetti patologici assai preoccupanti che riguardano sia la vita dei partiti e delle istituzioni che il loro rapporto con i cittadini. La tendenza inarrestabile all’aumento dell’astensione nelle elezioni generali e locali (che ormai si attesta oltre il 50 per cento) ne è il primo e il più allarmante sensore che, da un lato, sta a denunciare i limiti dell’offerta politica e la scarsa qualità delle classi dirigenti, politiche e amministrative; mentre dall’altro evidenzia la totale sfiducia del cittadino nel poter incidere con il suo voto individuale sugli assetti politici per la ripartizione del potere e l’indirizzamento delle risorse pubbliche. Questo, perché, in buona sostanza, il voto è dato una volta per tutte e, da lì in poi, i giochi di potere per la formazione dei governi (centrali e locali) e la distribuzione degli incarichi pubblici avvengono in modo del tutto opaco e non trasparente, sia all’interno che (molto più spesso) all’esterno dei luoghi e dei palazzi istituzionali.

Vediamo quali sono, a oggi, i gravissimi limiti ai quali deve dare una risposta una riforma in profondità dell’attuale Costituzione del 1948 che, tuttavia, non può essere perfezionato azionando l’articolo 138, bensì indicendo le elezioni per una nuova Assemblea costituente. In primis, il presidente del Consiglio dei ministri (Pcm) oggi non è che “primus inter pares”, che propone per la relativa nomina la lista dei suoi ministri al Presidente della Repubblica. Pertanto, il premier (dizione totalmente impropria di derivazione anglosassone) non può rimuovere o costringere a dimettersi uno o più ministri del suo Governo, se non con un rimpasto del Gabinetto da lui presieduto, la cui procedura tuttavia non è formalmente regolata dalla Costituzione vigente.

In secondo luogo, altra palla al piede è il bicameralismo perfetto che impone navette estenuanti e forti ritardi all’approvazione dei disegni di legge d’iniziativa governativa. L’introduzione di una forte “premiership” anche nell’ordinamento costituzionale italiano deve impedire, innanzitutto, il ripetersi di forme di “cesarismo” dispotico e dittatoriale, tramite un’elezione semidiretta del premier, individuato univocamente come il primo nome della lista elettorale vincente che gode, a sua volta, di un forte premio di maggioranza, in modo da garantire la governabilità di legislatura. Quindi, in senso esplicito, si intende che le dimissioni del premier e del suo Gabinetto comportino automaticamente lo scioglimento, da parte del Presidente della Repubblica (PdR, nel seguito), del Parlamento stesso. Quest’ultimo dovrebbe di preferenza consistere in un’Assemblea unica o, se binaria, quantomeno con funzioni complementari rigorosamente regimate dalla Costituzione, tra i due rami della Camera Bassa e di quella Alta. Il PdR conserverebbe il potere formale di nomina del premier e dei ministri, che resterebbe però un atto dovuto, ratificando quindi allo stesso modo eventuali decisioni successive del Premier in carica per quanto riguarda il rimpasto di Gabinetto. A garanzia, il Parlamento può sfiduciare a maggioranza qualificata il Premier ma, in questo caso, verrebbe anch’esso automaticamente sciolto con atto del PdR. Una Corte costituzionale parimenti rinnovata manterrà sia le prerogative di Giudice delle Leggi, sia quella dirimente nei conflitti tra gli organi costituzionali.

Il Premier e la sua lista sono eletti sulla base di un dettagliato “Programma di Governo” che ne esplicita, in particolare: le missioni specifiche; le modalità di finanziamento e di reperimento delle risorse necessarie e i tempi presunti di attuazione per ciascuna di queste ultime. Per tutte queste missioni, il premier chiede e ottiene al Parlamento corsie privilegiate per l’iter di approvazione dei provvedimenti di legge previsti dal Programma. Per superare il problema di fondo su come far contare al massimo il potere di voto dell’elettore nella scelta dei propri rappresentanti e della loro eventuale revoca dal basso in corso di mandato, è sufficiente elaborare una efficace riformulazione del meccanismo anglosassone del “Recall” (raccolta di un numero minimo di firme per sottoscrivere la richiesta di revoca popolare del mandato dell’eletto), sia per il singolo parlamentare che per l’intero Governo in carica. L’ulteriore elemento di forza per il potenziamento reale della “Democrazia dal basso” consiste nella previsione costituzionale del numero minimo (ad esempio pari al 2 per cento degli aventi diritto al voto) di raccolta firme per leggi d’iniziativa popolare, tale da avere diritto alla precedenza prioritaria nell’iter parlamentare di approvazione.

Ultima notazione: visto il massacro e il mercato delle vacche che ha contraddistinto in questi settanta anni di vita pubblica le nomine dei vertici delle istituzioni, Pubblica amministrazione centrale compresa, è bene che il Capo dello Stato-Amministrazione sia il Presidente della Repubblica, che si fa garante dell’imparzialità e della selezione esclusivamente per merito e per concorso dei funzionari pubblici, sottraendoli così a qualsivoglia discrezionalità del potere politico. Per l’attuazione delle missioni di programma, il premier, con proprio atto, può provvedere alla creazione di gruppi di missioni e team esecutivi, assegnando loro autonome dotazioni finanziarie, con l’eventuale facoltà di avvalersi del supporto delle varie articolazioni della Pubblica amministrazione, in base ai poteri loro delegati ad hoc e temporaneamente dal Governo. La “costituzionalizzazione” della politica è, pertanto, la soluzione.

Aggiornato il 27 luglio 2022 alle ore 10:35