Europa e gas: superare gli egoismi nazionali

Alla fine in Europa il problema è sempre lo stesso: il principio di unanimità, che vincola ogni decisione al benestare di tutti gli Stati membri e che, puntualmente, costituisce uno dei principali ostacoli all’agilità decisionale dell’Unione europea, che si trova sempre appesa alle indecisioni o al pollice verso di questa o di quell’altra nazione.

Fino a qualche giorno fa si è – giustamente – puntato il dito contro l’Ungheria, che ha fatto del suo meglio per ammorbidire le sanzioni contro la Russia e che, alla fine, è riuscita in parte a spuntarla sul blocco dell’importazione di petrolio. Chiaramente gli altri Stati membri si sono risentiti e a buon diritto: al punto che si è pensato di escludere Budapest dalle future decisioni in materia. Stavolta, però, a respingere la proposta che ha incontrato il consenso della quasi totalità degli Stati membri e che porta la firma del premier Mario Draghi, sulla necessità di stabilire un tetto al prezzo del gas importato da Mosca, sono state la Germania e l’Olanda. La prima teme che una simile mossa potrebbe spingere il Cremlino a ridimensionare ulteriormente le forniture o a interromperle del tutto. La seconda, invece, si oppone perché teme l’effetto distorsivo della misura – che secondo il premier Mark Rutte produrrebbe meno benefici di quanto si pensi – e perché – non dimentichiamolo – il prezzo del gas si decide ad Amsterdam.

Morale della favola: tutto rimandato a dopo l’estate, probabilmente a ottobre. Ciononostante, il capo dell’Esecutivo, che più di tutti ha spinto per far passare la linea italiana e che ha “convertito” a essa anche Paesi inizialmente scettici come la Francia, si dice tutt’altro che deluso: era preparato al solito rinvio con un linguaggio un po’ vago e ci tiene a precisare che decisioni di questo tipo non si prendono dall’oggi al domani.

Anche al G7 si è convenuto di dover calmierare i prezzi delle materie prime, sebbene si sia parlato più che altro di petrolio. Tuttavia, il premier Draghi è stato in prima linea nel ribadire l’importanza anche della questione del gas, forte dell’appoggio – almeno a quanto di dice – del presidente Usa, Joe Biden. La linea di Bruxelles rimane incerta: da una parte Ursula von der Leyen, che apre alla discussione e si dice sicura che sia possibile giungere a un’intesa anche su questo punto; e dall’altra Charles Michel che, invece, cerca di frenare i facili entusiasmi sottolineando la necessità di studiare bene quali potrebbero essere le conseguenze di una simile decisione.

Continua, nel frattempo, la corsa alla diversificazione delle fonti. Sono stati conclusi importanti accordi con altri partner strategici da questo punto di vista, come Israele o l’Algeria; e la Norvegia lavora a pieno ritmo per garantire gli stoccaggi alla maggior parte dei Paesi europei, Italia inclusa, in vista dell’inverno. A partire dall’inizio del prossimo anno entreranno in funzione gli impianti di rigassificazione e sarebbe allo studio del Governo la riaccensione delle centrali a carbone – almeno fin quando non sarà stato accumulato gas sufficiente a garantire il fabbisogno nazionale. La dipendenza italiana dal gas di Mosca, è scesa dal 40 al 25 per cento nel giro di pochi mesi e, con ogni probabilità, come ha detto lo stesso Draghi, saremo in grado di renderci indipendenti dalla principale arma di ricatto di Vladimir Putin nei nostri riguardi entro un tempo ragionevole e comunque meno lungo del previsto. Escluso, al momento, il razionamento.

Non si può dire che questo Governo stia con le mani in mano o che Draghi abbia fallito nel suo obiettivo: c’è una straordinaria dose di malafede ideologica in queste affermazioni e, ancor più, quello che sembra essere il rifiuto di distinguere tra “tentativo” e “garanzia di successo”. Provare a fare qualcosa non significa necessariamente riuscirci al primo colpo. Alla fine, pagano molto di più la tenacia e la decisione, qualità che a Draghi certo non mancano. Sembra che non sia ancora chiaro un concetto: tifare per il fallimento del Governo o compiacersi se ciò avviene – e non è avvenuto, ma alcuni hanno interpretato in questo modo il rinvio sul “price cap” al Consiglio europeo – vuol dire sperare nel fallimento dell’Italia e gongolare per questo.

Il grande problema rimane l’aumento dei prezzi, che come ha ricordato il ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani, non è dato da una scarsità del bene o dalla diminuzione delle forniture da parte di Mosca, ma dalla speculazione, che è il vero motivo per cui il “price cap” diventa di vitale importanza. Si tratta, però, di una misura da adottare a livello europeo: un’azione unilaterale da parte dell’Italia avrebbe poco senso e sarebbe perlopiù inutile.

Non si fa che parlare della necessità di superare gli egoismi nazionali per dare vita a una vera unità europea in senso federale. Naturalmente, il primo passo da compiere è il passaggio al principio della maggioranza nelle decisioni, mettendo così fine a questa pessima abitudine da parte di alcuni Stati di “coltivare il proprio orticello” a spese altrui. Si tratti dell’Ungheria o dell’Olanda non fa alcuna differenza: stare all’interno di una comunità implica il sapersi adeguare alle decisioni prese di comune accordo e il potere di veto conferito dalle attuali regole europee ai singoli Stati che, di volta in volta, preferiscono l’interesse nazionale a quello comunitario – nel senso che non fanno il minimo sforzo per far combaciare l’uno con l’altro – è qualcosa di sempre più insopportabile.

In secondo luogo, c’è un che di profondamente ideologico nell’opposizione di Amsterdam al “price cup” proposto dall’Italia. Il libero mercato è un’ottima cosa e ha dimostrato di saper funzionare molto meglio di qualunque modello economico dirigista o pianificato. Ciò non significa che non si possa e che non si debba essere pragmatici o che il libero mercato vada considerato una specie di “religione economica”, con i suoi dogmi e i suoi precetti inviolabili. Ciò è fuorviante ed espone il mercato stesso a dei serissimi rischi per la sua integrità e il suo corretto funzionamento. Non a caso, alla conferenza del G7, Draghi ha ammonito a valutare bene la proposta italiana di calmierare il prezzo del gas. Non si tratta solo di limitare drasticamente, più di quanto non si sia fatto finora, la capacità della Russia di finanziare la guerra contro l’Ucraina, proprio come non si tratta solo di privarla della sua principale arma di ricatto geopolitico nei riguardi di tutta l’Europa. Il vero problema è impedire che i rincari energetici mettano sempre più in difficoltà le imprese e i cittadini ed evitare di fornire dei pretesti ai populisti. Come ha ricordato il premier, non si devono dare argomenti ai demagoghi, sempre alla ricerca di formule con le quali attrarre consensi facili, né si può lasciare che il vento torni a soffiare a favore delle forze antisistema, men che meno in un momento come questo. Aggiungiamo pure che queste forze populiste ed estremiste sono quelle sulle quali confida il Cremlino per indebolire l’asse occidentale e il gioco è fatto.

È possibile che Putin abbia di nuovo cambiato strategia e che ora – consapevole di non poter vincere sul campo – stia cercando di logorare la tenuta psicologica e la fibra morale dell’Occidente. I giochetti col gas sono solo un modo per favorire la speculazione e l’innalzamento dei prezzi, in maniera tale da sobillare l’opinione pubblica e l’elettorato europeo contro i governi e contro l’appoggio che giustamente e doverosamente stanno fornendo a Kiev. La speranza dell’autocrate russo è che l’Occidente sia costretto – per calcoli di natura politico-elettorale ed economica, dai sondaggi e dall’inflazione, insomma – a ritirarsi dalla battaglia, lasciandogli così campo libero e permettendogli di vincere e di prendersi l’Ucraina come era nei suoi progetti.

Chissà se Rutte si è reso conto che comportandosi in questa maniera e ponendo veti ideologici a dei provvedimenti assolutamente necessari, sta facendo il gioco del Cremlino, del quale è diventato un validissimo alleato, anche meglio dell’Ungheria, sia pure in maniera del tutto inconsapevole. Amsterdam dovrebbe solo pensare che tutti gli Stati europei hanno dovuto fare dei sacrifici e ingegnarsi come meglio potevano: e l’hanno fatto perché, davanti al dilemma “gas a buon prezzo o libertà”, hanno scelto la seconda. Proprio l’Olanda, da sempre avanguardia e “rivoluzionaria” sotto il profilo dei diritti e delle libertà civili, prima ancora che economiche, vuole tirarsi indietro e favorire il Cremlino pur di non scendere a patti con la realtà e non sacrificare un po’ del suo interesse? Proprio quel Rutte che è d’ispirazione per tutti i liberali e i libertari d’Europa e che è stato tra i più severi nel condannare Putin e il putinismo, anche prima dell’inizio della guerra? L’Olanda si dimostri degna della sua nomina di paladina delle libertà individuali e la Germania la smetta di aver paura di qualcosa di cui è irragionevole temere: al momento, il gas russo non può che avere l’Europa come acquirente, anche solo per ragioni infrastrutturali.

La maggior parte dei Paesi europei ha dato ascolto a Draghi: ora spetta ad Amsterdam e a Berlino (che ha già fatto qualche piccola apertura sul tema, proprio durante il G7) decidere se posizionarsi sull’asse di Roma o su quello di Mosca.

Aggiornato il 28 giugno 2022 alle ore 10:56