Sanzioni alla Russia per rafforzare una Ue a due velocità?

Il sesto pacchetto di sanzioni varate contro la Russia può diventare l’occasione per marginalizzare gli Stati europei che maggiormente subiscono i riflessi delle sanzioni medesime e per modificare di fatto regole fondanti dell’Unione, a cominciare dal criterio di unanimità, peraltro nel caso specifico evocato a sproposito.

Con la pubblicazione, il 3 giugno, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del regolamento di esecuzione del Consiglio, di attuazione ulteriore delle sanzioni contro la Federazione Russa, colpevole dell’invasione dell’Ucraina, si è concluso il lungo iter riguardante la definizione dell’embargo petrolifero in danno della Russia. Nella narrazione mediatica il tutto si è accompagnato alla contestazione all’Ungheria di averne impedito la più veloce e completa introduzione: si è dipinto, e continuato a dipingere Viktor Orbán, come l’unico capo di governo che si opponeva all’embargo petrolifero, fino a descriverlo come l’autore del veto all’inserimento del patriarca della Chiesa Ortodossa di tutte le Russie, Kirill, tra i destinatari delle restrizioni ad personam quanto alle possibilità di entrare o avere beni in Europa.

È vero che l’Ungheria ha posto il problema della sua maggiore dipendenza dal petrolio russo, che vi arriva via oleodotto terrestre, tant’è che, dopo essere stata ricercata una soluzione di compromesso, nel senso di immaginare l’entrata in vigore dell’embargo in danno della Ungheria (e anche della Slovacchia) ben oltre il termine previsto – infine adottato – del 31 dicembre 2022, ci si è determinati a prevedere il blocco delle forniture petrolifere dai terminal russi solo via mare.

Tale scelta riguarda, tra gli altri, principalmente l’oleodotto Druzhba, che, quando arriva in Europa si scinde in un braccio a nord (che serve Polonia e Germania, in particolare il Brandeburgo, la capitale Berlino e il suo unico aeroporto, per il tramite di una società controllata dalla russa Rosfnet), e un altro più meridionale (che serve Ungheria, appunto, ma anche Slovacchia, Cekia e infine Austria e Croazia), per cui, pur se Germania e Polonia hanno assunto l’impegno – politico, ma non giuridicamente vincolante – di staccarsi dall’oleodotto entro la fine dell’anno, non è solo l’Ungheria che potrà trarre vantaggio da questa situazione in caso di shortage nelle forniture energetiche nel corso del prossimo inverno.

Problema ulteriore di possibile disparità di trattamento fra gli Stati membri va rinvenuto nella circostanza che, a partire da gennaio, quantomeno la stessa Ungheria, la Slovacchia e la Cekia (ma forse anche la Germania, che dovrebbe rifornirsi attraverso il porto di Rostock delle forniture attualmente garantite dal Druzhba, con costi molto più elevati, e per solo il 60/70 per cento del relativo attuale approvvigionamento) continueranno a servirsi del petrolio russo, che è meno caro, con possibili fenomeni di dumping commerciale nell’approvvigionamento delle forniture energetiche all’interno dell’Unione.

La Germania riceveva, fino a prima della guerra, dal gas russo il proprio fabbisogno energetico per il 55 per cento, con le sanzioni ne ha ridotto la dipendenza al 35 per cento. Tale percentuale, per essere ulteriormente abbassata, deve attendere la costruzione di due rigassificatori che possano utilizzare il gas liquefatto che arriverebbe via mare da altri Paesi: se ne prevede il completamento non prima di due anni; durante tale periodo c’è evidentemente la opportunità di continuare ad utilizzare il gas russo ovvero anche il petrolio del Druzhba.

Del resto, l’assenza di una linea unitaria da parte della Ue si manifesta anche in ragione del fatto che, in questi ultimi giorni, Danimarca e Paesi Bassi si sono aggiunti alla Polonia ed alla Cekia nel vedersi tagliare da Gazprom le forniture di gas russo, poiché anch’esse non hanno accettato il diktat putiniano di imporre il pagamento in rubli (in spregio alle sanzioni bancarie e ai patti contrattuali che prevedono l’adempimento in euro), diversamente da Italia e Germania che vi hanno acconsentito pur di non aggravare la propria dipendenza energetica.

Altro aspetto della narrazione mediatica relativo a tale confusa situazione tra i Paesi europei è il volerne addebitare la causa al criterio della unanimità nelle decisioni della Ue, tale da porre un potere di veto in capo agli ungheresi di turno; nel senso del superamento di tale principio sono andati di recente il premier italiano Draghi e il rieletto Presidente francese Emmanuel Macron: costui si è anzi spinto, in occasione del discorso all’Assemblea di Strasburgo del 9 maggio scorso, a vagheggiare una Comunità politica europea su base confederale, alla quale associare i Paesi europei che non fanno oggi parte della Ue, ma nella prospettiva – come espressamente da lui affermato per la stessa Ucraina! – di tenerli fuori dall’Unione. All’interno dell’Ue andrebbero a suo avviso previste delle cooperazioni rafforzate tra singoli Stati per superare le forche caudine dell’unanimità.

Si tratta di ipotesi di riforma del funzionamento della Ue del tutto legittime, ma che andrebbero discusse e deliberate prima dai Parlamenti nazionali, e poi da quello di Bruxelles, per arrivare alla modifica dei Trattati in parte qua. Ciò che lascia, al contrario, sorpresi è che anche addetti ai lavori indulgano nella narrativa sull’importanza del superamento del criterio dell’unanimità, che, ad esempio, proprio per gli atti del Consiglio, che ha adottato il sesto pacchetto di sanzioni, sulla scorta del lavoro preliminare del Coreper-Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (normalmente composto da ambasciatori e diplomatici di carriera), non si applica affatto.

Non è certo tollerabile che chi conosca il diritto dell’Unione possa fare confusione fra il Consiglio europeo, previsto dall’articolo 15 Tue e disciplinato nel suo funzionamento dagli articoli 235 e 236 Tfue, composto dai 27 Capi di Stato dei singoli Stati membri, che si riunisce ordinariamente due volte all’anno e adotta, appunto all’unanimità, atti di indirizzo politico che impegnano la Commissione, quale organo esecutivo, e il Consiglio, previsto dall’articolo 16 Tue e regolamentato dagli articoli 237-243 Tfue, organo con funzione legislativa e di bilancio in contitolarità con il Parlamento europeo, composto dai rappresentanti di ciascun Stato membro a livello ministeriale, di volta in volta nominati quoad obiectum.

Ebbene, anche se vi è una esigenza politica – come nel caso delle sanzioni – di allargare le ipotesi di decisioni da assumere all’unanimità, il Consiglio opera ordinariamente con il criterio della maggioranza qualificata e del voto ponderato, che prevede, nel rispetto del peso dei singoli Stati membri, il voto favorevole di almeno il 55 per cento degli Stati membri, per un loro numero non inferiore a 14, che rappresentino almeno il 65 per cento degli abitanti dell’Unione. La conseguenza è che si possano adottare decisioni non unanimi, nel rispetto dei Trattati attualmente vigenti, senza doverli modificare.

Alzare la cortina fumogena della unanimità come causa, pressoché unica, delle difficoltà di funzionamento degli organi dell’Unione sembra, allora, nascondere la orwelliana pretesa dei maiali, cioè i Paesi più pesanti, di essere più eguali degli altri ospiti della fattoria europea; e al tempo stesso, dall’altro, voler pervenire surrettiziamente a una modifica dei trattati, non formale e non frutto di consapevoli e deliberate scelte dei singoli Paesi, tale da consentire che circoli ancora più ristretti delle élites europee decidano in nome e per conto delle centinaia di milioni di europei che abitano l’Unione senza mandato né responsabilità politiche.

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 09 giugno 2022 alle ore 16:58