Golden Power: il supereroe che criminalizza i dissidenti

In questi giorni s’è levato un polverone di polemiche sul fatto che il Governo ha facoltà di bloccare il passaggio di una testata giornalistica da un gruppo editoriale all’altro concorrente: la cosiddetta “Golden power”, che permette ad un governo di fermare qualsivoglia vendita di beni per un non ben definito “interesse strategico dello Stato”.

Ovviamente tutti cascano dalle nuvole e fanno i sepolcri imbiancati, fingendo che la “politica del consenso” sia finita nel 1945 in Italia ed a fine anni Ottanta nel mondo con l’estinzione dell’Unione Sovietica. Di fatto nei regimi, nei cosiddetti “Stati etici”, era ben chiaro il confine tra ciò che si poteva dire e fare e quanto era vietato e sanzionabile. Così ci accorgiamo che anche nel cosiddetto “metodo democratico” c’è il rischio che un governo manipoli il consenso. Strumentalizzando un sentire comune, e tramite i media, per emarginare socialmente i dissidenti, scongiurando possa crearsi un’opinione pubblica ostile al potere ed al governo, sua espressione.

L’esempio occidentale più immediato ci viene dalla società statunitense del secondo dopoguerra, che venne compattata dai media intorno al pericolo comunista, favorendo la politica “maccartista” del governo. Di fatto i giornali servono al potere per compiacere i governi, per allarmare la società su eventuali pericoli o farli avvertire come reali: enfatizzandoli al punto da generare l’esclusione sociale verso chi non accetta gli eccessi repressivi del governo o del potere in genere. Chi parla di un’evidente involuzione democratica, di una stampa non libera, dovrebbe riflettere sul fatto che nella nostra giovane (anche vecchia) democrazia c’è sempre stata una certa attenzione dello Stato su chi fa politica, su chi scrive e parla pubblicamente.

È ovvio che nelle grandi città si abbia sempre l’impressione di grande libertà d’espressione, ma non è così. Provate a darvi appuntamento in un bar con un gruppo d’amici, e per ovvie finalità politiche, quasi certamente la vostra riunione verrà notata e registrata da qualche addetto ai lavori. La vostra coscienza vi dirà che non state facendo nulla di male. Ma, chi ha preso buona nota del convivio, vi accluderà nell’archivio dei cittadini da attenzionare per motivi politici, e la Digos passerà ogni informazione ai Servizi segreti e, se vi dovessero essere motivi più gravi, alla Procura della Repubblica. Ovviamente nelle piccole comunità, nei paesi, la gente viene messa benevolmente in guardia: il maresciallo dei carabinieri subito si precipita al bar, fingendo d’aver bisogno di un caffè, e dice ai presenti “faccio finta di non avervi visto tutti insieme” e poi, rivolgendosi al barista, “ma accade spesso che i signori si riuniscono per parlare di politica?”. Quindi il ligio servitore dello Stato saluta i presenti e torna al suo comando stazione, dove annoterà ora, luogo e data della sospetta riunione con finalità politiche: se dovesse succedere un tumulto, anche un gesto di plateale dissenso verso l’amministrazione locale, il maresciallo convocherebbe coloro che si erano riuniti al bar, e questo dopo aver avvertito il magistrato di turno.

Il dissenso non è comunque ammesso dal potere, sia autocratico che democratico, perché è un sentimento (diciamo una filosofia politica) attraverso cui si manifesta disaccordo verso l’assetto padronale della società. Ecco perché l’opposizione nei confronti di un’idea, come l’orientamento politico o le scelte di un governo, viene concessa solo agli eletti in corpi intermedi (partiti o sindacati) riconosciuti o istituzionalizzati dal potere. Invece l’opposizione o il dissenso di un gruppo di comuni cittadini verso una personalità istituzionale (come Mario Draghi per esempio) prevede l’apertura d’indagini di polizia, e per evitare derive eversive.

Storicamente, la miglior definizione di dissidente l’ha elaborata Roj Aleksandrovič Medvedev: il dissidente non è semplicemente colui che la pensa diversamente, bensì esprime esplicitamente il disaccordo e lo manifesta ai suoi concittadini e allo Stato. È evidente come, con modi ovattati, anche le moderne democrazie proibiscano e reprimano le forme di dissenso e di attivismo antigovernativo. Le persone che non si adeguano ed assurgono a nemici del potere, sia imprenditoriale che statuale, perdono il lavoro, ricevono accertamenti giudiziari e fiscali, in poche parole vengono emarginate.

La società italiana tra il 1970 ed il 1990 aveva raggiunto un tale livello di benessere da far sentire il potere compiaciuto di garantire la libera espressione del dissenso, addirittura veniva incoraggiata la critica attraverso giornali, televisioni e opere cinematografiche. La gente si sentiva partecipe dei processi decisionali perché le istanze contro gli abusi di Pubblica amministrazione e grandi imprese trovavano cassa di risonanza nei partiti, che svolgevano una funzione oggi assente nelle aule parlamentari.

La politica oppositoria è tornata in quell’angolo della vita pubblica, in quel ghetto, da cui era fuoriuscita a fine Ottocento. Il dissidente è tornato al rango di nemico giurato del potere. Il problema è che nessun governo potrebbe mai più restituire agli italiani la tranquillità, la “pax democristiana”, il “volemose bene” di andreottiana memoria: perché i governi italiani hanno ormai le sole norme Ue come fonte ai propri decreti, e sappiamo bene come questo stia mandando in disuso la nostra Costituzione. Così nessun esecutivo può più perdonare i cittadini, amnistiare, condonare tombalmente i loro peccatucci. La tracciatura totale e continua del cittadino, con annessi obblighi ai vari aggiornamenti tecnologici, garantisce solo un fine pena mai. Il Covid ieri e la guerra oggi hanno accelerato il fenomeno di blocco economico e sociale della società italiana. E chi tenta di ribellarsi a questo stato d’inedia è un dissidente. Chiunque s’opponesse, o fosse colto dalla voglia di fare, verrebbe ridicolizzato dai media, da giornali e tivù sotto il vigile occhio del “Golden power”.

Aggiornato il 08 giugno 2022 alle ore 12:45